Dal
30 ottobre scorso, dopo le dimissioni di massa di 26 consiglieri
della giunta comunale, Ignazio Marino non è più sindaco di Roma,
sfiduciato per ordine di Matteo Renzi.
Il
passo successivo del Presidente del Consiglio è stato quello di
commissariare il comune di Roma, rimandando così le elezioni
amministrative capitoline a dopo la fine del Giubileo straordinario.
Nel
frattempo ha scelto di commissariare la città nominando il Prefetto
di Milano Francesco Paolo Tronca, nato a Palermo e con alle spalle
una lunga carriera nella polizia.
La
scelta del Presidente del Consiglio è la conferma di una direzione
che la politica, non solo quella di centrosinistra, ha iniziato a
prendere sempre più frequentemente da qualche anno a questa parte, e
cioè affidarsi ad esponenti provenienti dalla società civile,
quell’aggregazione di cittadini che convivono all’interno di uno
Stato e che non prendono parte in modo diretto al processo politico.
Nel
corso del tempo il significato di società civile ha avuto
un’importante svolta con Hegel, il quale ha idealizzato una
profonda distinzione tra società stato, e soprattutto tra società
civile e società politica, definendo lo stato come un ente, una fase
autonoma e di un livello superiore rispetto alla società.
Tornando
a noi, le dimissioni di Marino non hanno fatto altro che confermare
una tendenza tornata di moda nel nostro Paese: il politico-manager
esterno alla vita, alle regole e alle idee dei partiti.
Esempio
lampante di esponenti della società civile che sono stati chiamati
all’interno della sfera politica sono i cosiddetti “Governi
Tecnici”.
Tutto
è iniziato nei primi anni ’90, quando a fronte di chiare
situazioni di emergenza si è scelto di affidarsi a personalità
dalla non dichiarata identità politica ma che appoggiati dalle forze
parlamentari hanno dato vita a quei governi di funzione transitoria
con esponenti scelti in base alle loro competenze tecniche.
Il
primo governo che ha avuto queste sembianze ha preso vita con
Giuliano Amato, esponente dell’allora Partito Socialista ma con il
compito affidatogli dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi
Scalfaro di formare un esecutivo capace di traghettare l’Italia al
di fuori della stagnazione politica e della crisi economica all’epoca
in auge.
Il
secondo Governo tecnico ha invece avuto vita dal 28 aprile 1993 al 15
maggio 1994, quando lo stesso Presidente Scalfaro ha affidato al
banchiere Carlo Azeglio Ciampi, non esponente di alcuna forza
politica, il compito di formare un nuovo governo di emergenza (che
avrà poi anche Ministri “politici”).
Il
terzo Governo tecnico si ebbe nel 1996 con Lamberto Dini, Direttore
Generale della Banca d’Italia e a capo del primo esecutivo composto
esclusivamente da Ministri e Sottosegretari provenienti dalla Società
Civile. L’ultimo
Governo tecnico, anch’esso puro, è stato quello presieduto da
Mario Monti dal 2011 al 2013.
Esponenti
della società civile nella politica non sono dunque una novità, e
l’esempio più lampante e di maggior “successo”, esclusivamente
elettorale (non fraintendetemi), riguarda l’allora solamente
imprenditore Silvio Berlusconi, che nel 1993 diede vita ad una nuova
forza politica di destra.
Nel
centro-sinistra invece, a causa del forte attaccamento alla macchina
partitica, sin dai tempi del Partito Comunista, e dalla freddezza con
cui si è sempre guardato alla società civile, si è faticato a
raggiungere e a rivolgersi a personalità estranee al mondo politico,
anche e soprattutto per l’alto profilo che, almeno a livello
locale, il PCI prima e il PD ora sono riusciti ad offrire ai propri
elettori.
Il
primo grande esempio degno di nota si è avuto solamente nel 2013,
quando per le elezioni regionali in Lombardia, dopo le consuete
primarie, gli elettori del Partito Democratico hanno scelto di farsi
rappresentare da Umberto Ambrosoli, figlio di quel Giorgio Ambrosoli
assassinato nel 1979 mentre era commissario liquidatore della Banca
Privata Italiana presieduta da Michele Sindona. Umberto,
avvocato, non era iscritto al PD e aveva sempre vissuto la realtà
politica dall’esterno, senza però farne mai parte.
La
medesima cosa sta accadendo in questi giorni riguardo al candidato
del centro-sinistra per le elezioni amministrative di Milano che si
terranno l’anno prossimo. Il nome che circola da tempo per il
post-Pisapia è quello di Giuseppe Sala, commissario unico ed
amministratore di Expo2015, e con alle spalle una carriera
manageriale in Telecom e Pirelli. L’idea
di fondo del PD, o forse solo di Renzi, è quella di proporre un nome
al momento caldo a fronte di una plausibile povertà di candidati
“forti” da pescare dalle fila del partito a Milano.
Per
il Partito Democratico si tratta di una strategia del tutto inusuale,
come già detto in precedenza, ma forse è proprio questo il punto
che hanno più in comune l’attuale segretario e Silvio Berlusconi,
e cioè l’idea che un bravo manager possa essere al tempo stesso un
bravo sindaco, e più ampiamente parlando un bravo politico.
Se
Berlusconi può essere capito poiché difende in qualche modo se
stesso, dato che proviene dalla società civile, non è nemmeno
difficile comprendere la scelta di Matteo Renzi, politico si di
professione, ma che tende a creare intorno a sé una sorta di cerchio
magico e soprattutto fidato, che in un futuro più o meno breve possa
ricordarsi di chi l’abbia aiutato e sostenuto e in una certa
maniera ricambiare il “favore” ricevuto.
Il
modus operandi renziano può piacere o non piacere, anche se mi
diventa difficile non storcere il naso davanti ad esso, ma è
comunque utile al fine di comprendere i cambiamenti che si stanno
vivendo all’interno del centrosinistra guidato da Renzi,
cambiamenti che riguardano sempre più l’abbandono del candidato
politico a fronte di quello “manageriale” o dell’uomo di
fiducia del segretario. Da
un punto di vista che può essere condivisibile o meno, non è
assolutamente certo che se qualcuno faccia bene un mestiere di
conseguenza ne possa far bene un altro, così come non è certo
l’esatto contrario.
Il
presupposto principe è che la politica è anch’essa un lavoro, un
lavoro forse più difficile degli altri, un lavoro che richiede doti
e capacità elevate e particolari, il ché la rendono un così tanto
nobile mestiere da non aver regole e parametri che la classifichino.
Chi
vuole diventare medico deve necessariamente studiare medicina, chi
vuole diventare avvocato deve studiare giurisprudenza, chi vuole
diventare commercialista ha davanti a sé un preciso percorso da
seguire.
La
politica invece non chiede niente. Non c’è una scuola da
frequentare, degli studi da portare a compimento o esami da superare,
ma solo il godimento dei diritti civili.
Anche
nell’antica Roma non erano previsti determinati requisiti per
accedere alle cariche pubbliche, ma per evitare che personaggi poco
credibili e dalla bassa attitudine morale potessero arrivare
velocemente e facilmente alle più alte cariche della Res Publica si
decise di introdurre il Cursus Honorum, quell’ordine
sequenziale degli uffici pubblici che un aspirante politico avrebbe
dovuto seguire, procedendo in ordine crescente e di importanza e
rispettando un intervallo minimo di tempo per ottenere la carica
successiva.
Forse
il Cursus Honorum come lo intendevano i romani è troppo severo e
datato, ma una più umile e moderna gavetta non sarebbe poi così
tanto sbagliata.
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