Il risultato elettorale dello scorso Giugno consegnava l’immagine di una Turchia frammentata e diffidente nei confronti del potere. I risultati avevano difatti negato all’Akp di Erdogan, al potere dal 2002, la maggioranza di governo necessaria per poter creare un esecutivo monocolore. Il primo di Novembre i Turchi sono, così, stati chiamati per la seconda volta in un anno al voto e la vittoria sorprendente del partito di governo, che ha ottenuto il 49,3% dei consensi, ha richiamato l’attenzione degli osservatori internazionali. Nessuno si aspettava infatti un mandato elettorale di questa portata nei confronti del partito del presidente. Questa vittoria sembra essere il risultato di una politica sempre più populista ed autoritaria che potrebbe prefigurare instabili scenari interni e regionali. In tutto questo l’Europa rimane a guardare il suo ex potenziale stato membro diventare un attore imprevedibile con il quale è necessario ripensare una strategia di dialogo.
Il Presidente turco, Erdogan, dopo le elezioni del 1 Novembre |
E’ dunque inevitabile parlare di una trasformazione interna della Turchia in senso autoritario ed il timore è che questa spettacolare vittoria elettorale di una parte della società turca possa sfociare in una disastrosa destabilizzazione interna. La Turchia è infatti un paese misto al suo interno dal punto di vista religioso ed etnico e presenta una profonda stratificazione sociale dovuta anche all’apertura forzata verso l’occidente durante l’epoca kemalista. Un paese così complesso necessita di una democrazia più inclusiva possibile, capace di rappresentare gli interessi di tutte le minoranze etnico/religiose del paese: uno scenario che però è diametralmente opposto alla realtà dei fatti.
La grande questione di fondo che interessa, o dovrebbe interessare, noi europei è il difficile rapporto tra l’Unione Europea e la Turchia, una relazione fatta di alti e bassi, di incomprensioni dovute ad una naturale distanza geografica ed ad un rilevante fattore geopolitico che pone, di fatto, la Turchia ad essere un ponte tra l’Europa ed il Medio Oriente piuttosto che un paese di confine.
Nell’analizzare le relazioni dell’UE con la Turchia di Erdogan, il presidente sultano, non si può non parlare di quanto questo paese si stia allontanando sempre più da quel modello di democrazia che, idealmente, l’Unione Europea vorrebbe rappresentare.
Angela Merkel, ospite di Erdogan nel suo palazzo a Istanbul | Fonte: bloomberg.com |
Le elezioni di Novembre si inseriscono nell’ormai avviato disgregamento democratico in Turchia operato da Erdogan e dai vertici del suo partito, l’Akp, il Partito della giustizia e dello sviluppo, che nasceva come rappresentante degli interessi dei conservatori islamici moderati, un partito che aspirava alla membership europea ed ad instaurare buone relazioni con gli Stati Uniti, ma che sembra aver radicalizzato oltremodo le sue posizioni strizzando anche l’occhio alla Russia sulla politica energetica.
Il fallimento del processo di annessione europea della Turchia dimostra, inevitabilmente, la debolezza degli strumenti negoziali dell’UE, la quale aveva giocato, incautamente, molto sulla sua magnetica forza di attrazione nei confronti di quella Turchia, figlia di Ataturk, che guardava all’Europa come modello di sviluppo e di cultura democratica al quale puntare. Un interesse portato avanti anche dai partiti islamici che hanno poi guidato il paese fino ad arrivare all’accordo di accessione del 1997.
Ad oggi, però, il modello democratico europeo non è più elemento a cui aspirare anzi, quello che rimane di un ventennio di stabilità sta franando sotto i colpi inferti negli ultimi due anni dal presidente Erdogan.
Lo Stato di Diritto non viene più garantito formalmente da quanto le manifestazioni di piazza Taksim sono state violentemente soppresse. Da quel momento in Turchia una serie di eventi hanno continuato ad abbattere il muro di libertà e rispetto democratico. Ad oggi, secondo Reporters without Borders, la Turchia è tra gli ultimi paesi in materia di libertà di stampa ed è allo stesso tempo il paese con il maggior numero di giornalisti in prigione. Solo durante l’ultima campagna elettorale sono state chiuse dal governo due testate giornalistiche anti-Akp, mentre nel 2014 Twitter è stato chiuso prima delle elezioni locali per alcuni giorni. Gli attacchi nei confronti della democrazia e dello stato di diritto si possono anche riscontrare nelle forti accuse rivolte dal presidente alla magistratura, colpevole di aver denunciato casi di corruzione riguardanti alcuni ministri. I tentativi di ridurre l’influenza del potere giudiziario sono stati parzialmente bloccati dalla corte costituzionale ma ad oggi risulta che il potere esecutivo turco sia incline ad intervenire su quello giudiziario.
In tutto questo Erdogan sta tentando, alla luce del sole, di riformare la costituzione turca in senso presidenziale, ovvero alla Francese, dando così più poteri al ruolo del presidente.
L’Akp esce così dalle elezioni del 1 Novembre come un partito che cerca, in tutti i modi, di verticalizzare sempre più il potere marginalizzando i suoi avversari politici.
Questo è l’aspetto che più di tutti dovrebbe richiamare l’attenzione di un’Europa attenta alle buone relazioni con il suo vicinato. Con l’allontanamento progressivo da un sistema inclusivo e democratico la Turchia rischia, infatti, di cadere nell’impasse di altri paesi arabi ai suoi confini come Iraq e Siria, ovvero una situazione in cui il potere è detenuto dai rappresentanti di una delle tante minoranze del paese. L’Akp di fatto non è più un partito che sa parlare a tutto il variegato panorama turco e la Turchia non è più quell’attore-ponte a livello regionale di dialogo e cooperazione tra l’occidente ed il mondo islamico, la polarizzazione è ormai evidente ed Erdogan sta insistendo sempre più sulle fratture etnico-confessionali della società turca.
Una protesta curda nel sud est del paese | Fonte: usatoday.com |
In questo scenario potenzialmente esplosivo le speranze di chi osserva dall’Europa sono legate ad una trasformazione della politica muscolare di Erdogan che, ormai libero da future elezioni, possa tornare ad impegnarsi per garantire una necessaria coesione sociale per un paese particolarmente frammentato come la Turchia.
Dal punto di vista delle istituzioni europee la prospettiva di membership per la Turchia è argomento e strumento sul quale non è più possibile puntare. La questione dirimente odierna è legata ai profughi siriani che passano dalla Turchia per entrare in Europa. Questione che ha visto la Merkel presentarsi ad Istanbul lo scorso ottobre per tentare un dialogo sulla gestione dei rifugiati in Turchia. In quell’occasione, infatti, il premier Davutoglu ed il presidente Erdogan hanno chiesto, in aggiunta ad aiuti economici per la gestione dei rifugiati, una riapertura del negoziato di accessione all’UE.
Utilizzare così impropriamente la carta della membership in uno dei momenti più bassi per il processo democratico turco sarebbe un errore che potrebbe far crollare la credibilità dell’Europa come attore di democratizzazione. Ma probabilmente la credibilità europea verrà accidentalmente salvata dalla sua stessa incongruenza e da quella inattività che ha sempre dimostrato nei confronti della questione turca che, tuttavia, torna prepotentemente a bussare alle nostre porte.
Gaia Taffoni
@TaffoniGaia
Gaia Taffoni
@TaffoniGaia
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