Un'immagine del pianista che, dopo gli attentati di Parigi, ha suonato "Imagine" fuori dal Bataclan | cultora.it |
Fotografie come questa hanno fatto il giro del mondo appena qualche giorno fa. Un pianista (italiano, per la cronaca) che suona Imagine a pochi metri dal Teatro Bataclan, la sala concerti dove hanno perso la vita 87 persone nel corso degli attentati di Parigi.
La domanda che forse tutti noi musicisti ci siamo posti, almeno una volta nella vita, è: “ma davvero pensiamo che suonare una canzone per la strada possa fermare una guerra?”. Il ragionamento naturalmente si può estendere a tutte le forme di arte, quel particolare gruppo di attività umane senza alcuno scopo pratico, e in quanto tali vulnerabili agli attacchi di chiunque si professi “pragmatico” (il solito trito ritornello: “con la cultura non si mangia”).
Nessuno dubita che anche in guerra un medico debba continuare a fare il suo lavoro, oppure un impiegato, o un idraulico. Ma un musicista? È giusto suonare quando la città brucia? Ha senso? Sì, sembrano rispondere i musicisti del Titanic. Ma forse la questione è più complessa.
Mi associo al compositore Pierre Boulez quando dice “io penso che, alla fine dei conti, non sarà una poesia a impedire che dei bambini vengano bruciati”. E non sarà certo una canzone a fermare una guerra. Una sola sicuramente no, ma nemmeno diecimila canzoni. Questo perché l’arte si muove su un piano completamente diverso dalla realtà. Non è la realtà, e, piaccia o no, non ha influenza su di essa. Trovo che sia un atteggiamento buonista pensare di cambiare il mondo con la bellezza. L’arte è completamente e meravigliosamente inutile: è questo che ci rende perplessi. L’arte non serve a niente: si può mangiare, bere, dormire, tutto senza ombra di arte nella propria vita.
Però (e questo “però” è grosso come una casa) è esattamente questo che rende l’arte quello che è. La sua inutilità pratica. Non so cosa sia passato per la mente del primo cavernicolo che ha deciso di dipingere un bisonte sulla parete della caverna, ma sicuramente questo non ha cambiato la realtà. Prima o dopo averlo dipinto il bisonte è stato ugualmente difficile da catturare, anche se piace credere di no. Ed eccoci al punto: cos’è cambiato tra prima e dopo? Se il cacciatore dipinge per propiziarsi la caccia non è il bisonte che muta, ma lui stesso. La pittura lo influenza nella misura in cui lui ci crede, tanto che catturare il bisonte gli sembra più facile. E questo è precisamente il punto: l’arte non serve a nulla finché non ci crediamo.
Sia chiaro, non c’è nulla di giusto o sbagliato nel crederci o meno, è una scelta. Ma se si crede nel valore dell’arte allora l’arte avrà davvero quel valore. Funziona un po’ come una scatola idealmente priva di peso: peserà tanto quanto le cose che decidiamo di metterci dentro.
E dunque, che diavolo fa il musicista quando la città brucia? Se non suona un organo idraulico forse farebbe meglio a farsi da parte, almeno sul momento. Il problema però si pone sul dopo, e qui trascrivo il resto della citazione di Boulez a cui ho accennato sopra: “io penso che, alla fine dei conti, non sarà una poesia a impedire che dei bambini vengano bruciati. E tuttavia, se una testimonianza sopravviverà, sarà appunto quella poesia”. Forse, e dico forse, una volta che tutto è bruciato e bisognerà ripartire, sarà utile che qualcuno ricordi cosa è successo, per provare, se possibile, ad evitare che si ripeta. E, a mio parere, questo dovrebbe essere il fine (se così si può dire) dell’arte: cercare di impedire che sia necessario ogni volta ripartire da zero. Fornire una sorta di “salva con nome” per poter ripartire da dove si era rimasti, o almeno da poco più indietro.
L’uomo non è fatto solo di mangiare, bere e dormire. Si può vivere così, certo, ma a questo punto non ci sarebbe molta differenza tra una persona e un animale. Noi siamo animali, non lo nego, ma ci sarà pur una ragione se siamo diventati la specie dominante? Se ci fossimo limitati alle semplici funzioni vitali con tutta probabilità non saremmo arrivati dove siamo. È quindi profondamente stupido rifiutare tutte le sovrastrutture apparentemente inutili che rendono l’uomo quello che è: e l’arte sta al primo posto. Forse, più dei cromosomi, ci rende umani l’andare a teatro, il cantare sotto la doccia, lo scrivere poesie. E l’arte, insieme a chi fa arte, è la custode di tutto quello che è umano ma al tempo stesso non animale.
Il mio può sembrare un discorso altrettanto buonista di quelli che ho rifiutato nei primi paragrafi, ma credo ci sia una sostanziale differenza: io parto dal presupposto piuttosto pragmatico che sia conveniente sfruttare al massimo le competenze dell’uomo. Si può mettere un fisico teorico a guidare un autobus, ma sarà indubbiamente uno spreco di risorse. Una volta finita la guerra il fisico teorico deve essere in grado di riprendere il lavoro dove l’aveva lasciato, per impedire che l’uomo ricada indietro nella barbarie o che semplicemente perda tempo a riconquistare conoscenze che aveva già ma che nel frattempo si sono perdute.
E così dovrebbe fare l’artista quando la città è bruciata: testimoniare quel che è accaduto e impedire che accada di nuovo, continuando a fornire alla società quel che di meglio ha da offrire, sia la Nona sinfonia, la Divina Commedia oppure una canzone di John Lennon nel luogo di un attentato, per impedire che le avversità del momento ci facciano ricadere nello scivolosissimo baratro della barbarie e ci riportino a uno stadio per fuggire dal quale abbiamo sacrificato millenni di storia e miliardi di vite.
Nessun commento:
Posta un commento