Il peso di essere donna: la violenza contro le migranti

In occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, è necessario parlare ancora delle donne rifugiate. È necessario parlarne perché, nell’ansiosa ricerca del dramma che caratterizza le notizie sui migranti, spesso le foto di donne e ragazzine sono sbattute in prima pagina solo per suscitare sconcerto e commozione. Quello che manca, invece, è una riflessione più profonda sulla realtà delle donne che fuggono dai loro paesi. Una riflessione che deve avere il coraggio di affrontare il tema del genere, e il tema della violenza.

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Secondo le statistiche dell’UNHCR, le donne costituiscono almeno la metà della popolazione mondiale dei rifugiati. Tuttavia, dei migranti arrivati in Europa nel 2015, le donne sono state solo il 12%. E allora, dove sono tutte le altre donne? Dopo aver abbandonato il loro paese, molte di loro si fermano nei grandi campi profughi oltre il confine. Non hanno soldi né energie per proseguire la fuga, hanno bambini piccoli e temono i pericoli del viaggio, e così vivono stipate nelle tendopoli in Giordania, Libano o Etiopia. I campi sono posti pericolosi e imprevedibili, dove le donne sono preda di malattie, fame e violenze. Altre donne fuggono dai propri villaggi, ma rimangono intrappolate all’interno del paese, come accade per esempio in Somalia, irraggiungibili perfino per le organizzazioni umanitarie più organizzate e potenti.

Questo è il principale motivo per cui arrivano meno donne che uomini in Europa: non perché le donne abbiano meno bisogno di fuggire, ma perché per loro è più difficile allontanarsi dalle zone dei conflitti e trovare rifugio in paesi più sicuri. In Africa Occidentale, la popolazione femminile ha in media tassi di istruzione molto più bassi di quella maschile. Le donne sono più soggette alle malattie, soprattutto l’HIV. Hanno una situazione economica incerta, e spesso non possono contare sui propri risparmi o sul supporto della famiglia per pagare i passeurs. Per tutti questi motivi, per molte di loro l’idea di intraprendere il viaggio dall’Africa Centrale fino alla Libia, è semplicemente impensabile. Se hanno ancora i loro compagni, spesso sono loro a precederle, lasciandole in situazioni precarie con la speranza di trovare un modo sicuro di farsi raggiungere, una volta arrivati in Europa. Purtroppo questo modo non c’è: almeno fino a che non sia stato concesso lo status di rifugiato, il ricongiungimento familiare non è possibile. E allora, le donne rimaste indietro si trovano a dover scegliere se restare e vivere nel pericolo, o se intraprendere lo stesso terribile viaggio fatto dai loro compagni, ma questa volta da sole.

Quelle che decidono di partire, si imbarcano nello sfiancante attraversamento del Sahara, che è un’esperienza terribile per un uomo, e per le donne sole diventa un incubo. I trafficanti si approfittano della loro vulnerabilità e della loro disperazione, spremendo loro ogni risparmio e minacciandole di abbandonarle nel deserto se si rifiutano di soddisfare le loro richieste sessuali. Nelle lunghe carovane che attraversano il Niger, le donne sole vengono abusate, violentate e usate come passatempo dai trafficanti e dai compagni di viaggio. A volte, invece di arrivare alla meta, vengono abbandonate nei bordelli delle città lungo la strada. Ma anche se riescono a raggiungere la Libia, il loro calvario non è finito. A Tripoli le aspettano giorni di attesa, che a volte si trasformano in settimane e in mesi. Durante quel tempo, mentre uomini e donne vengono derubati e picchiati dalle bande armate che impazzano in città, le donne subiscono stupri di gruppo e sevizie di ogni tipo.

È difficile fare una riflessione sulla violenza contro le donne in situazioni di conflitto e durante la fuga. A volte, il voler fare dei distinguo viene interpretato come un vergognoso modo di insinuare che le donne soffrano più degli uomini. Questo non è vero, semplicemente perché è impossibile e insensato tentare di stendere una classifica del dolore. Il dolore, che è personale ed intimo, non si presta a percentuali e medie. E sottolineare le sofferenze di un popolo, un gruppo, un individuo, non significa negare o minimizzare le sofferenze di tutti gli altri popoli, gruppi e individui.

Per questo, parlare di una violenza sulle donne rifugiate è importante. Perché le donne fuggono, così come gli uomini, per mille diversi motivi. Perché la guerra è arrivata alla porta della loro casa, e invece di bussare l’ha sfondata. Perché il loro paese è in mano a gang criminali che lo mettono a ferro e fuoco. Perché sono governate da dittatori che impongono loro cosa pensare, cosa credere, cosa fare. Oppure perché, in quanto donne, sono vittime di abusi specifici, come matrimoni forzati, schiavismo sessuale o mutilazioni genitali.  Ma anche se il motivo principale delle violenze che hanno subito non è la loro appartenenza al genere femminile, la loro condizione di donne sole le rende ancora più vulnerabili davanti alla violenza. Se anche il genere non c’entra con la causa della loro fuga, molti degli abusi che subiscono, finiscono per essere violenza di genere. Lo stupro viene usato come arma di guerra, per punire le attiviste politiche, per umiliare le persone di altri gruppi etnici, per provare il proprio potere sulla pelle di un migrante inerme. La violenza di genere si nutre della povertà e del caos, prospera dove mancano la speranza e la consapevolezza dei propri diritti, viaggia insieme con la guerra. E quando una donna arriva in Italia attraverso il mare e attraverso il deserto, la probabilità che sia stata abusata in quanto donna sfiora la certezza.
Per questo ha un senso parlare di violenza contro le donne rifugiate. Senza nulla voler togliere alla violenza contro tutti i rifugiati. Ma anche senza voler negare che il genere gioca una parte importante e terribile, nel destino di chi è costretto a fuggire dal proprio paese.


Angela Tognolini



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