Cari lettori, questa settimana, dal 1 all'8 di novembre, The Bottom Up parlerà di cibo, in occasione della chiusura di EXPO 2015. Non parleremo solo di quello, anzi, sarà più che altro una scusa per far affrontare questo tema ai nostri autori, dal punto di vista dell'economia, della cultura e della politica. E non rinunceremo a provare a rispondere, a modo nostro, alla domanda posta da EXPO:come nutrire il pianeta?
Buon appetito! #TBUtalksaboutFOOD
Il mese di marzo nel 1860 in Francia
fu preparato da presagi funesti: il 27 febbraio una tempesta di
tramontana di inaudita violenza spazzò la zona tra Perpignan e
Narbonne, facendo addirittura deragliare un treno. A causa della
stessa tempesta una nave, la Louise, affondò dopo essersi
infranta contro gli scogli del porto di Bastia, con un bilancio di
cinquanta morti. Pochi giorni più tardi una disastrosa piena del
Reno provocò l’allagamento di numerosi villaggi nel dipartimento
dell’Haut-Rhin. Ma niente in confronto alla potenziale catastrofe
che si stava preparando nella capitale: l’incontro tra le due
personalità musicali più distanti del secolo.
A Parigi tuttavia la vita scorre
tranquilla come sempre. È una bella giornata di marzo, moderatamente
fredda, come vuole la stagione, e qualche timido merlo precoce
fischietta nelle siepi del Bois de Boulogne. Dalle finestre di Villa
Beau Séjour un sessantottenne Gioachino Rossini, ritiratosi dalle
scene ormai da più di trent’anni, guarda pensieroso il viale di
ghiaia che conduce all’ingresso, in nervosa attesa del suo ospite,
camminando su e giù per il corridoio e chiedendosi come fare a
cavarsi d’impiccio per quella faccenda.
Nella carrozza che procede verso il
quartiere di Passy, l’impeccabile Richard Wagner, astro nascente
dell’opera tedesca, freme dall’impazienza per l’incontro con il
solo uomo in Europa a poter rivaleggiare in fama con Napoleone, colui
che era stato definito “il musicista più significativo del mio
tempo” nientemeno che da Beethoven. Non lo ha detto a nessuno, ma
gli interessa anche appurare, con discrezione, se sono vere le voci
che gli sono giunte: che, cioè, Rossini avrebbe reagito alla prima
del Lohengrin dicendo “non si può giudicare il Lohengrin
dopo un primo ascolto, ed io non intendo certamente ascoltarlo una
seconda volta”. Un duro colpo per la teutonica autostima di Wagner,
il cui ego, narrano le cronache, nei giorni buoni copriva la
superficie dello stato della Bassa Sassonia.
Rossini intanto continua a fare su e
giù, imprecando in pesarese contro se stesso e contro la sua memoria
ballerina: cosa gli è saltato in mente di dire “venga pure a che
ora vuole”? Lo sapeva benissimo che quel giorno c’era un’altra
faccenda da sistemare, e ben più importante di quattro chiacchiere
sul destino dell’arte nel mondo. Pazienza, ormai è andata così,
troverà il modo di cavarsela in qualche modo.
Wagner infine arriva alla villa:
saluti, convenevoli, apprezzamenti reciproci (veri o falsi? continua
a chiedersi il tedesco), e finalmente entrambi si siedono in salotto
per intavolare una pacata conversazione. Rossini fin da subito
chiarisce che lui non c’entra nulla con i commenti malevoli che gli
hanno attribuito (nonostante, narrano sempre le cronache, un giorno
fosse stato sorpreso a leggere una partitura di Wagner a rovescio,
sostenendo che così ci capiva qualcosa di più; e nonostante avesse
affermato con solennità che “il signor Wagner ha dei bei momenti,
ma orribili quarti d’ora”).
Dopo i convenevoli Rossini chiede
scusa e “Pardon, monsieur”, allontanandosi per un paio di minuti.
Fa ritorno, si risiede e “dove eravamo rimasti?”. La
conversazione si porta sui massimi sistemi della filosofia musicale,
sulla valenza della linea melodica, sull’importanza del testo,
quand’ecco che di nuovo Rossini interrompe la conversazione.
“Pardon, monsieur”. Esce e rientra poco dopo. La conversazione
ricomincia, sul rapporto tra testo e musica, sull’efficacia della
recitazione pura inserita nell’opera lirica; si arriva persino a
toccare il ruolo dell’artista nella società moderna, persino la
musica dell’avvenire, in un crescendo costante di astrazione e
solennità. Ma ancora, “Pardon, monsieur”, Rossini esce e
rientra. Ripete la scenetta ancora un po’ di volte, finché Wagner,
più incuriosito che spazientito, trova il coraggio di chiedere al
venerando maestro cos’è che lo fa fuggire dalla stanza ogni cinque
minuti.
La risposta condensa in sé la
sostanza degli ultimi quarant’anni della vita di Rossini: “Pardon,
monsieur, ma ho sul fuoco una lombata di capriolo, dev’essere
innaffiata di continuo!”.
Una caricatura di Gioachino Rossini |
Questo aneddoto per portare
l’attenzione su un aspetto su cui spesso si sorvola, parlando di
grandissimi musicisti: la passione per il cibo. Perché non si tratta
di un vizio morboso e decadente, su quello ci sono pile di libri da
consultare. Un artista senza un vizio decadente sembra che non possa
essere tale, almeno stando a una certa parte della letteratura.
Ma dei vizi normali, bonari e
quieti, che non nuocciono a nessuno, di quelli non si parla. Non
fanno notizia, in poche parole, se non per farsi quattro rispettose
risate, come davanti alla foto di Einstein che mostra la lingua al
fotografo. Si sente quasi il dovere di sorridere di fronte
all’eccezionalità del lato “normale” (se mi si concede
l’ossimoro) di alcuni grandi personaggi, per affrettarsi subito a
ricollocarli lassù, nel solito freddo e noioso pantheon
irraggiungibile da noi comuni mortali.
Ma naturalmente certi personaggi sono
ben di più che divinità irraggiungibili: Rossini ne è un lampante
esempio. Potrebbe esserlo, certo, se guardassimo (come è diventato
quasi di moda) solo un lato della sua vita, cioè quello della
produzione musicale. Si tratta di uno dei più grandi artisti di
tutti i tempi, autore di alcuni dei brani più famosi al mondo:
dall’abusato “Largo al factotum” forse più noto come “Figaro qua, Figaro là”) alla meravigliosa
“La calunnia è un venticello”
(si noti il celebre espediente del “crescendo rossiniano”, cioè
la ripetizione di una stessa struttura gradualmente “farcita” –
termine non casuale – da sempre più strumenti), fino al finale
dell’ouverture del “Guglielmo Tell”, una delle
“cavallerie” più famose di tutti i tempi.
Già questo basterebbe. Ma Rossini è
molto di più, e si merita un posto in questo articolo per aver
coltivato una delle più normali tra le umane passioni: il
cibo. È forse il compositore che più si avvicinò al mondo della
nascente alta cucina, inventando egli stesso svariate ricette e
facendosi apprezzare come coltissimo gourmet ed esperto di
vini. Non un qualsiasi ingordo, quindi, bensì un raffinatissimo
esteta della cucina, come lo era stato per anni dell’opera lirica.
Oltre all’aneddoto già citato,
infatti, circolano parecchie altre storielle relative a questa
passione: nel già illustrato incontro con Wagner lo intrattenne a
lungo parlando di una delle sue più grandi passioni, che definiva
nientemeno che “il nero diamante della cucina”, il tartufo.
Proprio il tartufo è protagonista di
numerose ricette che gli furono molto care, come gli ancora oggi noti
“tournedos alla Rossini”, medaglioni di filetto di vitello
incorniciati di lardo e rosolati nel burro, adagiati su una fetta di
pan carré, ricoperti di foie gras e cosparsi di una generosa
grattata di tartufo di Acqualagna. Non proprio la leggerezza fatta
ricetta, ma sentite, di qualcosa bisogna pur morire, e a questo punto
è meglio farlo con la pancia piena.
Pare che nel 1864, quando a Pesaro gli
dedicarono una statua con una cerimonia che attirò qualcosa come
ventimila persone, lui se ne restò in Francia, premurandosi però di
scrivere a un collega: “Lasciamo l’arte e veniamo alla materia
che tanto prevale sulle attuali generazioni. Vorrei che vi portaste
dal Bellentani, salsamentario [salumiere] estense, e lo pregaste di
spedirmi a Parigi, al mio indirizzo, sei zamponi”. A Villa Beau
Séjour arrivavano continuamente corrieri da ogni parte d’Europa:
si faceva spedire prosciutti da Siviglia, panettoni da Milano,
maccheroni da Napoli, apprezzando particolarmente “certi soavi
stracchini, che mi sono più cari delle croci e placche e cordoni che
mi vengono offerti dai sovrani d’Europa”. Lamentando, negli
ultimi anni bolognesi, la scarsità di ispirazione, scrisse “sto
cercando motivi musicali, ma non mi vengono in mente che pasticci,
tartufi e cose simili”.
Tournedos alla Rossini, da dartagnan.com |
Emblematiche sono alcune sue risposte
ai complimenti di impauriti ammiratori: dopo un concerto una signora
gli si avvicinò e gli disse “Avete nel cranio proprio il
bernoccolo della musica, eccolo là”. E Rossini, battendosi il
ventre: “E che ve ne pare di quest’altro, signora? Non potete
negare che sia ancora più visibile e sviluppato. E infatti il mio
vero bernoccolo è quello della gola”. Un altro ammiratore, colpito
dal suo aspetto gioviale, gli chiese se avesse mai pianto in vita
sua. Rossini rispose che sì, in effetti gli era capitato, ma solo
tre volte: quando fischiarono la sua prima opera, quando sentì
suonare Paganini e quando, durante una gita in barca sul Lago di
Como, gli cadde in acqua un tacchino ripieno di tartufi. Che doveva
piacergli proprio tanto, perché in un’altra occasione disse “Per
mangiare un tacchino dobbiamo essere almeno in due: io e il
tacchino”. Insomma, la dimostrazione vivente che i golosi
dappertutto stanno fuorché in un girone dell’inferno. Un raffinato
bon vivant, come venne definito da Le Courrier des
Spectacles: “una di quelle figure aperte e ben nutrite che
comunicano a chiunque in modo irresistibile la gioia di cui sono
pregne”.
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