Ce ne rendiamo conto che l'immagine è sfocata, ma il soggetto era troppo bello per non essere pubblicato. Fonte: cookiesandsangria.com |
Il 16 e il 17 novembre ad Antalya si sono riunite le venti maggiori potenze del mondo per discutere a proposito di rifugiati, guerra in Siria e cambiamenti climatici in vista della Conferenza sul clima di Parigi che si svolgerà a fine mese. Ovviamente, a seguito degli avvenimenti del 13 novembre il tema del terrorismo è entrato a piedi pari nella discussione, marginalizzando ulteriormente le tematiche prettamente economiche. Tuttavia si è parlato anche di economia, o meglio, di finanza. In chiusura di summit, infatti, il presidente russo Vladimir Putin ha lanciato la sua personale bomba: almeno quaranta paesi finanziano l’ISIS ed alcuni di essi sono presenti al G-20. Ecco, mi piace immaginare che re Salman (Arabia Saudita) e il primo ministro Ahmed Davutoğlu (Turchia) se ne siano andati fischiettando dalla stanza, perché è a loro che Putin si stava riferendo.
Non è un segreto che alcuni paesi del golfo consentano ai propri cittadini di finanziare privatamente lo Stato Islamico (Arabia Saudita, Qatar e Kuwait in prima linea), ma la notizia è la Turchia di Erdogan, sospettata da tempo di permettere il transito di armi e petrolio sul proprio suolo, favorendo di fatto il finanziamento dello Stato Islamico. Alla luce di ciò viene spontaneo farsi qualche domanda sulle modalità di “raccolta fondi” dell’ISIS, in che cosa consista e in che modo differisca dalle vecchie forme usate da altri gruppi terroristici. Cominciamo con un assunto: exigo ergo sum. Il terrorismo esiste a condizione che possa finanziarsi, soprattutto quando si parla di organizzazioni come lo Stato Islamico, che rivendicano la sovranità su un vasto territorio garantendo non solo munizioni ai combattenti, ma anche un sistema articolato di welfare ai civili. Quando il flusso di denaro viene interrotto, si blocca tutto. Da ciò possiamo intuire chi sono le figure chiave di ogni organizzazione terroristica moderna: gli intermediari finanziari. Ogni ruolo ha la sua importanza, dal leader al combattente; ma senza degli esperti operatori finanziari che sappiano reperire i fondi, non si va da nessuna parte.
Lo Stato Islamico amministra un territorio ricco il cui controllo garantisce un flusso di denaro in entrata ingente; si stima che la produzione e il commercio di petrolio fruttino almeno 30 milioni di dollari al mese. In un articolo di Wired, datato settembre 2014, si affermava come questo bastasse a far dell’ISIS l’organizzazione terroristica più ricca della storia. L’oro nero però non è l’unica entrata, forse nemmeno la più importante (ma questo è difficile da stabilire) e, come già accennato, lo Stato Islamico è molto più di una “semplice” organizzazione terroristica. Un’altra fonte è infatti la finanza. Come gli istituti finanziari (bancari e non) finanzino i gruppi terroristici è oggetto di studio e proveremo a spiegarlo il più chiaramente possibile.
A partire dagli anni Sessanta nei paesi islamici soggetti alla legge coranica si è sviluppata la cosiddetta finanza islamica, la quale, fondata su principi religiosi quali il divieto di esigere interessi e di prestare a usura, ha saputo guadagnarsi la sua fetta di mercato internazionale arrivando a muovere un volume d’affari da 1500-2000 miliardi di dollari all’anno. Si capisce che in questo mare rintracciare i singoli movimenti non è affatto un’operazione semplice e la presenza degli istituti in tutti i mercati, compresi i paradisi fiscali, rende il tutto ancora più complicato.
Tra le modalità di finanziamento più importanti c’è la Zakat, una tassa annua religiosa proporzionale al reddito pagata dai devoti musulmani destinata a colmare le diseguaglianze sociali e, proprio in virtù di questa funzione, apparentemente poco sospetta. La sua natura di tributo per finalità caritatevoli nasconde a volte scopi poco chiari. Si consideri anche che, in molti casi, l’organizzazione stessa si occupa della ridistribuzione tra la popolazione meno abbiente, creando così un legame più forte col territorio (è il caso di Hamas e, soprattutto, dello Stato Islamico), che rimescola ulteriormente le carte.
Alternative al sistema bancario sono le Waqf, fondazioni islamiche il cui scopo è la gestione dei beni per opere religiose, nelle quali confluiscono lasciti ereditari, donazioni ed elargizioni di denaro, la cui attività però risulta in alcuni casi sospetta (ne è un esempio il Waqf al islami in Italia).
Tra i canali non ufficiali, invece, il più importante è forse l’Hawala, celebre per il largo utilizzo da parte dei pirati somali. Questo strumento, che ha come principale base operativa Dubai, permette il trasferimento di denaro per mezzo di intermediari che versano e depositano una somma e vengono rimborsati da una casa madre, senza che compaia né il mandante né il ricevente, garantendo un pressoché completo anonimato. Si stima che questo sistema muova un capitale di circa 6 miliardi di dollari l’anno.
In questa analisi non abbiamo poi inserito i riscatti e le comuni attività di riciclaggio che hanno comunque un peso, soprattutto per gruppi terroristici meno radicati sul territorio e meno finanziariamente evoluti.
La materia è complessa e una soluzione al problema appare lontana. È certo che, fintantoché le organizzazioni di stampo terroristico saranno finanziabili, ossia fintantoché esisteranno persone che hanno volontà di rifornirle e strumenti per farlo, il problema sarà solo rimandabile. Molti dei paesi islamici hanno leggi che contrastano il finanziamento al terrorismo, altri hanno regolamentazioni più ambigue che di fatto lo permettono. In quest’ottica il comportamento della Turchia è molto interessante. La Turchia che ha avviato i negoziati per l’ingresso nell’UE è infatti la stessa che, per ostacolare la nascita di uno Stato curdo sul proprio confine, è disposta ad aiutare finanziariamente un’organizzazione contro la quale l’Unione è schierata attivamente, quando non vi è entrata in guerra aperta (vedi Francia). Questo è un tema importante di cui bisognerà tenere conto in sede di dibattito, ancor prima che di negoziazione. Lungi dall’essere un semplice conflitto di interessi, la situazione attuale mostra uno Stato con posizioni in politica estera opposte a quelle dell’UE e una scarsa preoccupazione al riguardo; non il massimo, così a braccio.
Luca Sandrini
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