The Bottonomics - Arriva il TFTA: l’asse “Cape-to-Cairo” si ripropone



La direzione verso cui l’economia globale si sta muovendo, dopo la sbornia di multilateralismo degli anni Novanta coincidente con la nascita della World Trade Organization, è quella dell’integrazione commerciale su base regionale. Gli esempi non mancano: si parte dall’ormai consolidato mercato unico europeo e dal NAFTA (North American Free Trade Area), passando per il Mercosur in America Latina fino ad arrivare all’Unione Economica Eurasiatica nello spazio ex sovietico. In mezzo, un’incredibile proliferazione di trattati commerciali bilaterali minori che ha reso lo studio della geografia economica il sogno di ogni appassionato di diagrammi di Venn. Anche il TPP (Trans Pacific Partnership), di cui si è tanto letto nei giorni scorsi, e il TTIP (Translatantic Trade and Investment Partnership), di cui tanto si parlerà in futuro, rientrano in questa casistica, anche se il legame geografico in questo caso è stato soppiantato da più forti motivazioni politiche.

Lo scorso 10 giugno si è aggiunto a questo elenco un nuovo accordo, la Tripartite Free Trade Area (TFTA), che si propone di riunire in un unico spazio commerciale ben 26 paesi africani, ricreando quell’asse verticale lungo la spina dorsale del continente, dal Sudafrica all’Egitto, che era stato il sogno nemmeno troppo nascosto della Gran Bretagna durante la corsa coloniale. Le negoziazioni hanno richiesto quasi dieci anni, essendo il primo incontro datato al 2006, e l’effettiva entrata in vigore del trattato è subordinata (come del resto accade anche per la TPP) alla ratifica dell’accordo da parte di almeno 14 degli stati membri. L’aggettivo Tripartite deriva dal fatto che i soggetti promotori dell’iniziativa non sono i singoli paesi ma le tre organizzazioni regionali in cui sono distribuiti, ossia la SADC (Southern African Development Community), l’EAC (East African Community) e la COMESA (Common Market for Eastern and Southern Africa): attraverso l’estensione reciproca delle preferenze commerciali (per ora solo sulle merci fisiche), l’obiettivo è quello di creare una colonna della tanto agognata area di libero scambio continentale, di cui si parla dal 1993. Tuttavia al momento della firma l’accordo è passato quasi inosservato ai commentatori internazionali, e di questo non bisogna stupirsi: guardando la TFTA attraverso i grezzi dati macroeconomici, si nota come il volume commerciale tra i paesi coinvolti equivalga a malapena all’1 % del totale delle esportazione mondiali e all’1,5 % delle importazioni (il TPP, tanto per fare un paragone, coinvolge circa il 40 % dell’economia globale). L’accordo diventa però rilevante in quanto coinvolge potenzialmente più di 600 milioni di persone (più dell’Unione Europea e del NAFTA, ad esempio), e lo spazio commerciale che è venuto a crearsi supera i 17 milioni di chilometri quadrati. Le merci quindi potrebbero girare su un territorio grande circa quattro volte l’Unione Europea, con la possibilità di creare un network commerciale di primissimo piano. Se praticamente ogni organizzazione internazionale vede nel commercio la chiave per far crescere l’ormai mitologico ceto medio africano, allora la TFTA rappresenta un primo passo nella direzione giusta. 

Al netto di queste considerazioni, vi sono però molte nubi sull’esito positivo di questo accordo, generate dalle caratteristiche strutturali delle economie africane, dalle dinamiche commerciali del continente e dai complessi assetti politici degli stati coinvolti. Tradizionalmente il commercio tra paesi africani ha un volume molto basso, intorno al 10 % degli scambi totali che interessano il continente. Gli ostacoli maggiori affinché cresca sono due: le enormi difficoltà di trasporto dovute alla carenza di infrastrutture e la scarsa diversificazione produttiva. Rimane da vedere come la TFTA si relaziona nei confronti di questi due problemi. Per quanto riguarda le infrastrutture, gli accordi prevedono l’istituzione di un piano di investimenti comuni per creare nuove infrastrutture lungo tutta la lunghezza dell’area (più di 7000 Km in linea d’aria), che dovrebbe aggiungersi ai piani di sviluppo stradale e ferroviario delle singole organizzazioni regionali e dell’Unione Africana. La diversificazione della produzione comporta qualche incertezza in più: non solo la mancanza di questa causa il crollo delle potenzialità commerciali regionali, ma favorisce in misura straordinaria le poche economie più sviluppate e diversificate (nella fattispecie Sudafrica, Zimbabwe, Kenia ed Egitto, che secondo le proiezioni dovrebbero assorbire circa il 90 % di tutti i guadagni diretti totali). Gli ottimisti e gli ortodossi della teoria ricardiana sono convinti che il solo abbassamento delle tariffe doganali, accompagnato dal piano di coordinamento industriale previsto dalla TFTA, spingerà i paesi alla ricerca del vantaggio comparato, aumentando le potenzialità del commercio. I pessimisti invece dubitano che le cose siano così semplici. Per creare una rete commerciale ci devono essere sia le merci che i consumatori: in questo momento, nonostante i segnali macroeconomici incoraggianti, mancano entrambi. Da un lato infatti un’enorme parte della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (dal 51 % dell’avanzato Sudafrica al 95 % della Repubblica Democratica del Congo). Incentivare al consumo in presenza di livelli di povertà così estremi pare un controsenso, soprattutto se si spera in questo modo di ingrossare le fila del piccolo ceto medio che sta emergendo. Dall’altro lato, risultano poco evidenti gli sforzi per invertire il tradizionale trend commerciale che vede le economie di quasi tutti i paesi africani essere export led, in particolare con la funzione di serbatoi di materie prime per il resto del mondo, con una produzione manifatturiera a basso valore aggiunto. Secondo molti commentatori, nel medio periodo molti stati si troverebbero quindi a dover fronteggiare l’invasione commerciale di merci più competitive senza avere le possibilità di ristrutturare la propria economia. Bisogna anche considerare che togliere i proventi dai dazi doganali creerà un cratere nelle finanze di quasi tutti i paesi.

Senza andare a considerare tutte le infinite, e meritevoli di discussione, problematiche di natura legale, politica e sociale che l’implementazione di un accordo di questo genere porta con sé, rimane il fatto che la TFTA nasce economicamente già sbilanciata verso pochi soggetti e con poco carattere verso i problemi strutturali. I risultati si vedranno solamente nel lungo periodo, ma con queste premesse i policy maker dei paesi coinvolti saranno costretti al superlavoro per rendere funzionale l’accordo. 

Roberto Mantero

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