"Dopo quindici anni le truppe occidentali se ne vanno. Che paese lasciano?"
Riuscendo finalmente a sopperire a una deprecabile mancanza che mi porto dietro da anni, venerdì 2 ottobre ho partecipare al festival di Internazionale a Ferrara. Per chi lo conosce non c'è bisogno di introduzioni; per chi non lo conosce, diciannove luoghi nel centro storico della città d'Este, dal circolo Arci alla piazza del Castello, nei quali giornalisti ed esperti di tutto il mondo si avvicendano per mille eventi a tema, tutto il giorno, per un intero weekend.
Partiti la mattina presto da Bologna con una scarna ma agguerrita delegazione di The Bottom Up, ci ritroviamo a Ferrara per le 9 30 circa. Appena preso in mano il libretto giallo con l'elenco degli eventi, io entro in crisi per l'abbondanza del menu; mentre i miei colleghi sembrano più determinati e sicuri delle loro scelte, io segno frenetico i vari incontri con un complicato sistema di simboli creato su due piedi, per cercare di distinguere nella massa gli appuntamenti “solo se ho tempo”, quelli “mi piacerebbe” e quelli “a tutti i costi”. In quest'ultima categoria, in realtà, finisce per ricadere un solo evento, attorno al quale organizzo la mia intera giornata. È alle 14,30 al cinema Apollo, si chiama “Afghanistan – Invaso e abbandonato” e gli ospiti sono il giovane Mujib Mashal, giornalista afghano; Nargis Nehan (in collegamento via Skype da Kabul), attivista e fondatrice di Equality for peace and democracy; e il taciturno e barbuto Joël Van Houdt, fotogiornalista olandese che da anni lavora nel Paese centrasiatico.
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sinistra a destra Joël van Houdt, Mujib Mashal e Junko Terao (di
spalle), ©Francesco Alesi, Internazionale
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Le domande iniziali, anche se leggermente off-topic, vertono ovviamente sugli ultimi, clamorosi sviluppi della situazione afghana: la conquista di Kunduz il 28 settembre da parte dei Taliban, da tutti dati per spacciati anni fa ma in realtà in progressiva riorganizzazione fin dal 2005. Le domande della moderatrice, la giornalista di Internazionale Junko Terao, danno il la a Mashal per descrivere Kunduz come una città fuori dall'abituale zona di insistenza dei Taliban, una città etnicamente composita e insospettabile come bersaglio dei guerriglieri islamici, ma al tempo stesso posta in un punto strategico per le rotte dell'eroina che dal confine afghano-pakistano e dalla zona di Kandahar viaggiano verso l'Iran, la Russia e l'Occidente. La tragedia della conquista, ottenuta da poche centinaia di studenti coranici contro qualche migliaio di miliziani a difesa della città, e l'intervento tutt'altro che pronto da parte delle forze della coalizione internazionale permettono di passare all'argomento centrale del dibattito: cosa dobbiamo pensare del ritiro – che nel 2016 diverrà probabilmente totale – delle forze internazionali dal Paese, e che tipo di Afghanistan dobbiamo aspettarci una volta che sarà lasciato a se stesso?
Le domande sono difficili, e le risposte tutt'altro che rassicuranti. Van Houdt ricorda, a proposito dell'affidabilità delle milizie personali che in gran parte del Paese stanno affiancando la polizia e all'esercito, di aver visto parecchi neo-miliziani giurare fedeltà esclusiva al loro capo all'atto dell'investitura, glissando con disinvoltura la parte riguardante il popolo, la Patria e Dio. Molti di questi miliziani finiscono poi per taglieggiare la popolazione, commettere furti e stupri e combattere le altre bande invece che mantenere l'ordine.
Un intervento fiume di Nargis Nehan racconta delle difficoltà amministrative di una macchina statale che in Afghanistan non è mai davvero partita, e che vive i suoi giorni più statici sotto l'attuale governo bicefalo guidato da Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah; del pantano che è ricostruire un Paese le cui infrastrutture fisiche e sociali sono state distrutte da quasi quarant'anni di guerra, e in cui i pochi elementi validi e istruiti cercano spesso la fortuna nella fuga all'estero; e della drammatica condizione delle donne e dei giovani, soggetti su cui si concentra la sua ONG, che rischiano di essere esclusi dal processo democratico e di costruzione statale.
Ci sono qua e là, tuttavia, dei segnali di speranza. Le persone provano a partecipare alla vita politica, provano a risollevarsi e a ricostruire ciò che serve ed è andato distrutto, la diffusione di internet e delle nuove tecnologie permette di abbattere alcune delle barriere che condannavano all'isolamento molte aree rurali.
Tuttavia, prosegue di nuovo Mashal, il ritiro delle truppe internazionali rischia di togliere una stampella a una nazione che ancora non è in grado di camminare da sola. Il progressivo intensificarsi della minaccia talebana, che con Kunduz, lo ricordiamo, ha ottenuto la più grande vittoria militare dalla caduta del loro governo nel 2001, non aspetta altro che il vuoto di sicurezza lasciato dal ritiro di Enduring Freedom per scatenare tutta la sua potenza e sostituirsi di nuovo allo Stato nei territori a maggioranza etnica pashtun del sud-est, da cui poi tenterà di riconquistare il resto del Paese. Le milizie armate che percorrono le strade afghane sono quasi completamente al di fuori del controllo di Kabul, e molti contadini – ai quali, tra l'altro, una situazione così instabile non riesce ad offrire alternative migliori della coltivazione del papavero da oppio – finiscono per preferire l'ordine folle e castrante dei Taliban alla totale assenza di autorità nelle aree fuori dalla portata della polizia.
Il problema, come accadde in Iraq, in Libia e in molti altri luoghi dove la democrazia occidentale ha sganciato le sue bombe per abbattere i tiranni, è che dopo la caduta del dittatore nessuno, né a Washington né a Bruxelles, è stato in grado di sviluppare una strategia coerente e di lungo respiro che conducesse, attraverso un processo sensato di nation-building, alla realizzazione di uno Stato degno di questo nome. Complice il neo-conservatorismo di Bush jr., la strategia del disimpegno di Obama e l'ormai scontata, esasperante, desolante mancanza di una politica estera comune nella UE, la fine del mandato Nato in Afghanistan lascia dietro di sé un popolo ancora in ginocchio e un Paese ancora in macerie. Se consideriamo che, all'atto della frettolosa invasione del novembre 2001, la Cia era così ben preparata da non avere nessuno nel suo organico che parlasse Pashto o Dari, le due lingue ufficiali afghane, non potevamo aspettarci di meglio.
È ancora Mujib Mashal a parlare, concludendo l'incontro. Alla domanda “Quale speranza vedi per l'Afghanistan?”, il giornalista risponde “Come sempre spero nella resistenza della sua gente. Ma anche se ormai la leggenda dipinge gli afghani come un popolo fiero e coraggioso, in grado di sopportare qualsiasi avversità, è ormai troppo tempo che l'Afghanistan vene flagellato da cicli ricorrenti di terrore e guerra, senza mai riuscire a risalire completamente la china. E purtroppo c'è un limite a tutto”.
Giovanni Ruggeri
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