Di Australia si parla poco sui giornali, delle sue politiche migratorie ancora meno. Proprio per questo, il panel “Terra promessa” è stato molto apprezzato dal pubblico del festival di Internazionale a Ferrara. Insieme a Ben Doherty, reporter di The Guardian, Jeff Sparrow, giornalista e scrittore australiano, Sam Wallman, autore di fumetti australiano e a Joël van Houdt, fotogiornalista olandese (sul suo sito potete trovare le foto del reportage che ha fatto fingendosi un profugo e tentando la traversata alla volta dell’Australia) si è discusso di frontiere chiuse, respingimenti e centri di detenzione offshore.
Per capire come l’Australia sia diventata il Paese con una delle politiche migratorie più severe al mondo è necessario fare una breve introduzione storica. La prima consistente ondata di profughi risale agli anni ’70 in seguito alla cosiddetta crisi dei rifugiati dell’Indocina. Fra il 1975 e il 1997 circa 185 700 profughi provenienti dall’Indocina si sono stabiliti in Australia. Se l’atteggiamento del governo inizialmente era positivo, dagli anni ’90 i politici hanno spinto sempre più su politiche migratorie atte a dissuadere l’arrivo di nuovi profughi. Il cambiamento è dovuto al contrasto tra la classe dirigente che insisteva sull’accoglienza come obbligo morale e l’opinione pubblica che è sempre stata di tutt’altro parere. I politici hanno così deciso di cavalcare l’onda xenofoba e non sono più tornati indietro. Emblematica di questo modus operandi è la campagna, promossa dal governo di Tony Abbott , “No way” il cui sottotitolo era “Non farai dell’Australia casa tua”.
Il manifesto della campagna "No way" |
Attualmente la politica migratoria australiana si basa su tre principi:
· Nel settembre del 2013 il governo di Tony Abbott ha introdotto l’operazione “Sovereign borders”, che ha messo i militari a capo delle operazioni di asilo. In base a questa politica, le navi militari pattugliano le acque australiane e intercettano le barche dei migranti, rispedendole in Indonesia.
· Dal 2012 l’“offshore processing”, ossia spedire tutti i profughi che arrivano via nave in centri di detenzione oltremare sull’isola di Nauru e di Manus in Papa Nuova Guinea, dove restano in attesa che i loro casi siano presi in esame.
· “regional resettlement”, che significa che dopo l’ottenimento dello status di rifugiato i migranti sono sistemati in Papua Nuova Guinea, a Nauru o in Cambogia.
Tra il 2012 e il 2013 sono arrivate illegalmente, via mare, diciottomila persone. La cifra è irrisoria se si pensa che l’Australia ha circa 21 milioni di abitanti distribuiti su una superficie di 7 617 930 km² (per capirci, l’Italia ha circa 61 milioni di abitanti e una superficie di 301 340 km² ). Allora perché tanta ostilità? Gli australiani sono veramente così razzisti e cechi di fronte a quello che sta succedendo? Secondo Ben Doherty la gente è preoccupata dall’arrivo di un’indifferenziata e disordinata massa di persone. Più che dei migranti in sé, si ha paura di questo disordine. L’immigrazione, quando regolata è molto meno “utile” agli scopi dei politici; quando invece è percepita come fuori controllo genera la “paura dell’ignoto” e può essere sfruttata a proprio vantaggio. Questo è sicuramente uno dei motivi per cui non si cerca di creare delle vie legali per poter raggiungere l’Australia. Per quanto riguarda la cecità, c’è da dire che ci troviamo di fronte a una delle più classiche forme di censura. E’ stato, infatti, istituito l’obbligo di non poter fotografare navi o profughi al fine di non creare empatia nell’opinione pubblica. L’occultamento di qualsiasi tipo d’immagine finisce per disumanizzare il problema. I migranti non sono visti come esseri umani in difficoltà, ma come numeri, entità non identificate. E’ proprio per questo che la foto di Aylan Kurdi, il bambino trovato sulla spiaggia di Bodrum, ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica: per la prima volta dopo molto tempo si è visto un migrante come un essere umano e non come un oggetto da evitare o smistare. Interessante come la maggior parte dei politici abbiano commentato la foto con qualcosa che suonava come: “Avete visto? Da noi queste cose non succedono, ecco perché impediamo gli sbarchi”. Una risposta degna del miglior Salvini nostrano. Inoltre il personale dei centri di detenzione non può rivelare cosa vi succede all’interno. Ecco in che tipo di ambiente s’inserisce il lavoro di Sam Wallman, che ha ideato un racconto a fumetti sulle condizioni di lavoro nei centri di detenzione per richiedenti asilo in Australia raccontato dal punto di vista di un ex dipendente della Serco, la multinazionale che gestisce queste strutture per conto del governo. Il fumetto è stato molto apprezzato da una certa parte della popolazione perché è riuscito a raccontare ciò che viene taciuto dalla maggior parte dei media tradizionali.
Gli ospiti del panel. Foto di Francesco Alesi | Fonte: Internazionale |
L’incontro si è chiuso con una domanda a tutti gli ospiti australiani: pensate cambierà qualcosa con il nuovo premier Malcolm Turnbull (eletto circa un mese fa), considerato da buona parte della stampa un conservatore moderato? Se Doherty e Sparrow sembrano confidare in una maggiore disponibilità del governo al cambiamento, Wallman è di tutt’altro parere. A suo avviso, nonostante il disappunto della comunità internazionale e in particolare dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, al governo australiano non interessa cambiare. Non importa se si violano gli obblighi del diritto internazionale, non importa se si privano i migranti dei propri diritti, ciò che conta per i politici australiani è solo il successo elettorale.
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