Raif Badawi e gli altri: libertà di espressione e altri diritti umani in Arabia Saudita


Raif Badawi è un blogger. Dalle pagine del suo sito web, Free Saudi Liberals, raccontava le contraddizioni del suo paese d'origine, l'Arabia Saudita così fedele alleata di Washington, così severa nell'applicazione della legge islamica nei confronti degli oppositori interni.
Proprio per questo motivo Badawi, 30 anni, moglie e tre figli, è stato arrestato il 17 giugno 2012 e da allora è trattenuto nel carcere di Gedda. Inizialmente era stato condannato a 7 anni di prigione e 600 frustate, ma la condanna si è inasprita lo scorso anno. Oggi Raif Badawi deve scontare una pena di 10 anni di carcere, una multa da un milione di rial sauditi (pari a circa 200mila Euro) e 1000 frustate. Inoltre, vi è un ulteriore capo d'accusa che pende, letteralmente, sulla testa di Badawi: l'apostasia. Questo reato viene duramente punito in Arabia Saudita con la pena di morte. Sebbene il blogger sia già stato scagionato due anni fa, il timore della famiglia è che la sentenza venga presto ribaltata.
La colpa di Badawi? Aver “offeso l'Islam” attraverso la sua attività di blogger, in altre parole: ha espresso online le sue opinioni.

La crudeltà della condanna e l'assurdità della situazione hanno subito provocato la reazione della comunità internazionale, in particolare Amnesty International si è mossa per difendere il blogger, definito “prigioniere di coscienza”. Già, perché il diritto del quale Raif Badawi è stato privato è quella libertà di espressione tanto cara agli Europei e “tornata in auge” dopo gli attentati alla redazione di Charlie Hebdo. La possibilità per i vignettisti di esprimere le proprie idee sulle pagine di un giornale non è più importante di quella dei tanti attivisti per i diritti umani che, in Arabia Saudita ma anche in molte altre parti del mondo, trovano nel web l'unico spazio “libero” sul quale raccontare, descrivere e denunciare ciò che vedono.
Le 50 frustate alle quali è stato sottoposto Raif lo scorso 9 gennaio sono fuori legge. É la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che, all'articolo 9, proibisce non solo la tortura, ma anche ogni trattamento crudele, inumano e degradante. Tuttavia l'Arabia Saudita, da questo punto di vista, non è un paese sicuro: frustate, lapidazione e varie forme di amputazione sono ammesse e utilizzate come pene. La legislazione sulla sicurezza nazionale è così generica da far rientrare tra gli atti di terrorismo anche forme di opposizione pacifica, come quelle di blogger e attivisti per i diritti umani incarcerati per aver espresso le loro opinioni. Inoltre, la struttura statale del gigante arabo si configura in maniera del tutto peculiare. 
L'Arabia Saudita nasce nel 1744 dall'alleanza tra l'autorità temporale e l'autorità secolare e fonda la sua sopravvivenza sulla duplicità: il potere è distribuito in modo che vi sia una netta distinzione tra leadership politica e religiosa. Mentre i Principi si occupano di high politics (e quindi del mantenere salda la relazione con gli Stati Uniti, per esempio), gli Ulama hanno il compito di preservare la pace sociale. A questo sdoppiamento di fatto del potere corrisponde una doppia forza di polizia: una impegnata a lottare contro il crimine, l'altra contro il “male”. Sebbene un processo di secolarizzazione si sia realizzato negli ultimi 50 anni e, oggi, la famiglia regnante abbia un'importanza maggiore, l'influenza della “polizia religiosa” è ancora significativa. In particolare, casi come quelli di Raif Badawi e dei tanti, troppi, altri cittadini sauditi trattenuti in prigione con motivazioni affini, dimostrano come l'opposizione allo status quo costi ancora troppo cara.

Raif Badawi è oggi soltanto il più eclatante esempio dell'illegalità applicata dalle autorità saudite. Si tratta della punta di un iceberg del quale fanno parte anche Waleed Abu al-Khair, noto difensore dei diritti umani e difensore di Badawi, che è stato condannato a 15 anni di carcere e ha subito torture fisiche e psicologiche; Omar al-Said, colpevole di aver utilizzato i social networks per incoraggiare la partecipazione a manifestazioni pacifiche; Fadhel al-Manasif, in prigione in virtù di una non ben specificata relazione con la richiesta della fine delle discriminazioni nei confronti della comunità sciita nel paese. Quando la Norvegia ha posto un'interrogazione su queste palesi violazioni, le autorità saudite hanno replicato così: “Il sistema legale dell’Arabia Saudita rispetta pienamente i diritti umani, in conformità con la sharia (legge islamica) – ha sottolineato l’ambasciatore di Riad all’Onu, Faisal Bin Hassan Trad, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa saudita -. Non accettiamo interferenze nei nostri affari interni e respingiamo l’ingerenza in questioni che riguardano la sovranità, poiché compromettono l’indipendenza e l’integrità del potere giudiziario.”

Il blogger non viene frustato da quella prima “rata” del gennaio scorso, ma a quanto si apprende delle ONG e dalla famiglia non si tratta di una buona notizia. Il pericolo che Badawi venga condannato a morte è concreto e nulla di questa storia dovrebbe lasciarci indifferenti. Le norme che permettono queste violazioni vengono promosse come iniziative contro il terrorismo e contro chi lo finanzia, un tema attuale anche nella vicinissima Europa. In rete e vista la mancanza di norme di tutela chiare è fin troppo facile includere tutti i personaggi scomodi tra gli incriminati, in qualsiasi modo essi manifestino la loro diversità di opinione. Può una persona rischiare di morire nell'omertà generale per aver espresso un pensiero online nel 2015 in un paese strettamente alleato dell'Occidente e che, ironicamente, siede nel Consiglio Onu dei Diritti umani?



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