Benjamin “Bibi” Netanyahu è un
personaggio politico estremamente controverso, disprezzato
dall’attuale amministrazione statunitense, beffeggiato dai paesi
del nord Europa e temuto dall’altra potenza mediorientale: l’Iran.
Martedì 17 marzo si terranno le elezioni politiche in Israele, una
chiamata alle urne che avrà un eco internazionale perché si
decideranno le sorti di Netanyahu, il leader più discusso dello
stato ebraico dalla sua fondazione.
Se, infatti, Benjamin “Bibi”
Netanyahu non riuscirà a strappare consensi al partito laburista
verrà probabilmente consegnato alla storia del suo paese e solo il
tempo potrà farci giudicare in modo razionale il peso delle sue
scelte.
Quello che è certo, infatti, è che i
cittadini dello Stato di Israele decideranno se dare priorità alle
questioni sociali, tra cui anche quella palestinese, e al lavoro
votando per il partito Laburista guidato da Isaac Herzog, o
continueranno a ritenere come prioritaria l’annosa questione della
sicurezza, diventata il cardine della politica del Likud da quando
Netanyahu ne è diventato il leader nel 1993.
La storia che i posteri dovranno
giudicare è quella di un partito, il Likud, che con il suo leader ha
fatto della cospirazione internazionale ai danni di Israele, dei
giochi di potere a livello internazionale e dell’equilibrio di
potenza il cardine della sua politica interna ed estera, spingendo su
posizioni estremamente radicali un partito che nasceva con ben altri
basi. Il Likud trae le sue origini nel
partito sionista ed ancora oggi mantiene un forte sapore
nazionalista, che riporta alla “Grande Israele” l’idea sionista
della costituzione di uno Stato d’Israele, è decisamente liberale
sui temi economici e ha sostenuto con i suoi leader storici come
Begin e Sharon la possibilità di una “Two states solution” per
la questione dei territori palestinesi.
Ma il panorama politico con l’ascesa
di Netanyahu è diventato decisamente più polarizzato e la più grande accusa che può
essergli rivolta, da parte della comunità internazionale, è quella
di aver annullato gli sforzi di Rabin nel portare avanti la politica
della “Terra per la pace” in quella congiuntura storica
particolarissima ed irripetibile nella quale Arafat rappresentava il
popolo palestinese e, con la partecipazione negoziale di diversi
paesi europei e degli Stati Uniti, si arrivò all’accordo di Oslo,
una dichiarazione unilaterale di principi per la costruzione di un
processo di pace sulla questione israelo-palestinese.
Dalla firma del primo accordo di Oslo
del settembre 1993 il Likud portò avanti una forte opposizione a
Rabin interpretando l’accordo di reciproco riconoscimento come un
primo passo per la fine dell’idea radicale sionista della “Grande
Israele”. Gli attacchi furono particolarmente aspri da parte del
neo leader del Likud, Netanyahu, che riuscì a sconfiggere, alle
elezioni che seguirono l’assassinio di Rabin, il suo delfino Shimon
Peres.
Da quella vittoria in avanti il partito
Laburista non è più riuscito a vivere un momento di splendore come
sotto il suo storico e compianto leader Yitzhak Rabin.
Netanyahu, una volta al governo,
espresse immediatamente la sua totale opposizione all’idea del
riconoscimento dello Stato Palestinese, al diritto di ritorno dei
palestinesi nelle proprie terre e allo smantellamento degli
insediamenti israeliani nella così detta “zona A”. Questo
programma, condito con un niet al ritiro della presenza
israeliana dalle alture del Golan significava una vera e propria
dichiarazione di guerra all’intero mondo arabo, e così fu.
Israele, da quel momento in poi, metterà al centro della propria
politica non solo la crescita economica, riuscendo ad uscire più
forte dalla crisi mondiale e a mantenere un tasso di
crescita e un alto livello di benessere anche dopo lo scoppio delle
primavere arabe, ma continuerà a ritenere centrale la questione
della sicurezza, quel sentimento di vivere come un paese accerchiato
da potenze nemiche che cospirano in improbabili alleanze per
distruggere lo stato di Israele.
Benjamin
Netanyahu rappresenta tutto questo e proprio le sue posizioni estreme
in fatto di sicurezza e sul fronte del dialogo con l’autorità
palestinese lo hanno portato a distanziarsi dall’amministrazione
Obama e ad incrinare i rapporti personali con il presidente degli
Stati Uniti. Poche settimane fa, infatti, si è consumato l’ultimo,
presumibilmente, episodio che mostra quanto sia la sicurezza ed in
particolare la cospirazione iraniana il cardine della politica di
Bibi. Il leader del Likud si è difatti recato in visita negli Stati
Uniti senza l’invito personale di Barack Obama che ha rifiutato di
incontrarlo per non condizionare le elezioni di Martedì 17 marzo.
Netayhau davanti al Congresso ha parlato dell’Iran e della
percezione che questo paese ha di Israele, ovvero di un “cancro nel
Medio Oriente che deve essere distrutto” e per queste ragioni ha
invocato la necessità da parte degli Stati Uniti di proseguire con
sanzioni dure nei confronti della questione nucleare iraniana invece
di ammorbidirsi nel tentativo, tra l’atro perseguitato dall’Alto
rappresentate per la politica estera europea, di trovare un
definitivo accordo negoziale.
I sondaggi statunitensi degli ultimi
giorni indicano che la maggioranza degli ebrei americani supportano
la strada negoziale perseguita da Obama e rigettano la linea del non
dialogo di Bibi, la lobby ebraica americana si è espressa con lo
slogan: “No Mr Netanyahu, you do not speak for American Jews”. Il
legame tra le lobby ebraiche statunitensi e la politica israeliana è
sempre stato molto forte e una parte ha spesso influito sulle sorti
dell’altra. Questa volta gli israeliani ascolteranno gli inviti
della comunità ebraica internazionale stanca di più di sedici anni
di politica firmata Netanyahu?
I segnali fanno sperare per una svolta,
come la nascita di un movimento di giovani che in pochi mesi,
attraverso i social network ha messo insieme una campagna elettorale
“Victory 15” esplicitamente anti governativa con slogan come: “un
governo senza Bibi: immagina, puoi!”.
Bisognerà solo aspettare i risultati
elettorali per sapere se Israele è pronta a superare l’impasse
storica nella quale è intrappolata da troppo tempo e se riuscirà a
reinterpretare il suo ruolo internazionale non più come potenza
pivot del Medio Oriente con il pallino della sicurezza, ma come la
Grande Israele che rispetta il diritto all’autodeterminazione dei
popoli , compreso quello palestinese, ed è capace di dialogo e
cooperazione nell’intricato panorama regionale del Medio Oriente.
Speriamo allora. Rosaria Gigantino
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