Non credo sia giusto accendere le luci
in sala appena finisce un film. Quando la musica sfuma, si dissolve
la sequenza di chiusura e partono i titoli di coda, in quell'istante
un tempo sugellato dal “The End”, lo spettatore sognante ha
bisogno di tempo. Invece il buio viene all'improvviso stonato da
fredde luci al neon che ti riportano troppo velocemente alla realtà.
All'avvento del chiarore qualcuno si alza subito e corre in bagno, a
fumare la sigaretta tanto agognata, fuori dalla sala perché
finalmente potrà riaccendere il cellulare. Ma rimane sempre una
manciata di individui trasognanti che fatica ad alzarsi dalla
poltrona rossa: chi legge attentamente i titoli di coda, chi cerca di
dare un senso a ciò che ha appena visto, chi vorrebbe un attimo di
pace per potersi commuovere. Ma le luci ormai sono accese.
Bisognerebbe lasciare scorrere lentamente i titoli, godere della
musica e delle domande che solleva la visione di una bella pellicola,
educare lo spettatore a digerire l'opera lasciandolo seduto con le
luci spente ancora un po'.
“Si alza il vento, bisogna tentare di
vivere”, scrisse Valéry nel 1920 (in un verso del Cimitero
marittimo). E allo stesso modo titola anche il romanzo di TatsuoHori, scrittore e poeta giapponese della prima metà del '900.
L'ultima fatica di Miyazaki è infatti la trasposizione
cinematografica di un manga realizzato dallo stesso regista, ispirato
al romanzo di Hori sulla vita dell'ingegnere aeronautico Jirō
Horikoshi. È la prima – e a quanto pare ultima – volta che
Miyazaki mette in scena una storia con personaggi realmente esistiti
e con chiari riferimenti al periodo storico in cui è ambientata. Da
un manga era nata anche l'animazione de Il castello errante di Howl,
ma non si trattava certamente di una storia realmente accaduta. Cosa
ne è della magia, quindi? Delle storie fantastiche, ricche di
misticismo e favoleggianti? Non sono certo state dimenticate. È però
un film diverso dal solito, rivolto quasi interamente ad un pubblico
adulto, in controtendenza rispetto a quella che è sempre stata la
volontà del regista stesso, ovvero di parlare anche ai bambini.
Allora Si alza il vento è
prima di tutto un film di formazione, un Bildungsroman
animato, la messa in scena di ciò che intendeva Wilde scrivendo
“Attento a ciò che desideri: potrebbe avverarsi”.
Jirō
Horikoshi, il protagonista, è un Vincent Freeman (Gattaca)
che non può volare, un Dwayne (Little Miss Sunshine)
che non può pilotare un aereo: è miope. Nei suoi sogni infantili
incontra un ingegnere italiano di nome Caproni, il quale gli svelerà
un importante segreto: ci sono persone al mondo che fanno un lavoro
ancora migliore del pilota, gli ingegneri aeronautici, e peraltro
possono essere miopi. Da questo incontro notturno scaturisce il
desiderio di Jirō,
quel desiderio febbrile che porterà con sé tutta la vita. Ormai
ragazzo, durante un viaggio in treno verso Tokyo, il destino prenderà
per lui un altro appuntamento che gli segnerà la vita, con una
ragazzina di nome Nahoko. È come se il loro incontro scatenasse una
calamità naturale, un terremoto, anzi, “il” terremoto del Kanto del 1923. I due non si incontreranno più, sino al 1932, quando Jirō
avrà già fatto carriera all'interno dell'azienda Mitsubishi e
Nahoko sarà divenuta una splendida donna. Il loro secondo incontro
scatena una nuova calamità, una forte tromba d'aria che cattura
l'ombrello sotto il quale la ragazza si stava riparando dal sole, per
gettarlo nelle braccia di Jirō. Questo scontro avverrà durante un
soggiorno estivo, al termine del quale i due torneranno alle
rispettive dimore come fidanzati. Una crepa lede però la felicità
dei due innamorati: Nahoko ha contratto la tubercolosi dalla madre,
ormai deceduta, ed ogni giorno per lei è una lotta per la vittoria
della vita.
Ciò
che Jirō ha desiderato si è realizzato. Ma a che prezzo? La
malattia e la guerra. Il vero Jirō Horikoshi è stato infatti
l'inventore dell'aereo da caccia Zero (Mitsubishi A6M Zeke)
utilizzato dalla Marina Imperiale Giapponese durante la Seconda
Guerra Mondiale, culturalmente associato all'attacco di Pearl Harbor
del 1941. E Nahoko Satomi, sua moglie, morirà di tubercolosi poco
dopo le loro nozze. Il film è ricco di riferimenti letterari e
storici, uno tra tanti: il signor Castorp, ospite all'hotel in cui
Jirō e Nahoko si incontrano per la seconda volta, porta lo stesso
cognome di Hans Castorp, il protagonista tubercolotico del romanzo La
montagna incantata
(Thomas Mann), citato dallo stesso nel film. Ma nei i riferimenti
storici alla Seconda Guerra Mondiale, nella scelta di una figura come
quella di Jirō Horikoshi, progettista di aerei militari, non credo
si possa associare nessun intento guerrafondaio.
Spesso durante il
dispiegamento della trama si fa riferimento a quanto sarebbe meglio
realizzare aerei da trasporto piuttosto che da distruzione, il ché
non credo possa ritenersi una scappatoia retorica per salvare la
faccia – e la carriera. Albert Einstein non poteva sicuramente immaginare che i suoi studi avrebbero condotto a Hiroshima e Nagasaki.
Raccontare questa vicenda ha probabilmente un solo scopo: quello di
fissare un lascito testamentario da parte di Miyazaki, nel quale
poter raccontare il suo Giappone, quello in cui è cresciuto,
attraverso la storia di un uomo buono, che come lui è riuscito a
fare dei suoi sogni una realtà. Le distese di verde, i raccordi
sonori nel montaggio, il violetto del vestito di Jirō, i baffi di
Caproni e incontrarsi nei sogni: questi sono i piccoli dettagli che
fanno di un grande regista la sua firma.
Non accendete subito la
luce.
Roberta Cristofori
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