Irachistan
STRUTTURE MILITARI
A
seguito delle invasioni di Afghanistan e Iraq, l’addestramento dei
nuovi eserciti nazionali dei due paesi è diventata una delle grandi
priorità del processo di nation
building condotto da
Stati Uniti e dai loro alleati. Oggi queste forze armate ci appaiono
poco pagate (quando vengono pagate), corrotte, demotivate, divise su
linee etniche/tribali che influenzano anche la selezione dei quadri
superiori (spesso cooptati per la loro fedeltà a questo o a quel
signore della guerra o capotribù).
In
circa dieci anni, e cioè dal 2002 al 2012, gli Stati Uniti hanno
speso in Afghanistan complessivamente oltre 500 miliardi di dollari,
in questa cifra sono incluse spese riguardante diversi aspetti:
militari, diplomatici, civili e di ricostruzione. Ma di questa enorme
mole di denaro le spese militari e per la sicurezza hanno assorbito
il 71% del budget (355 miliardi), mentre il governo e la burocrazia
afghana ne hanno consumato appena il 26%.
Inoltre questa cifra si riferisce al solo contributo degli USA, ma
bisogna ricordare che l’Afghanistan occupato è stato suddiviso in
Regional
Command ciascuno
guidato da una nazione diversa (all’Italia ad esempio fu affidato
il Regional
Command West,
comprendente tre province più quella di Herat). Molti di questi
paesi sono stati impiegati anche nell’addestramento della polizia e
dell’esercito afgano, risorti dopo la cacciata del regime talebano
(ad esempio, sempre l’Italia, nei primi sei mesi del 2010 ha
stanziato 306 milioni di Euro, di questi due sono andati a sostegno
dell’ANA, l’Afghan
National Army,
e altrettanti sono stati destinati all’addestramento dell’ANP,
l’Afghan
National Police). Se quindi conteggiassimo anche le somme stanziate da tutte le
nazioni che hanno partecipato ad ISAF (International
Security Assistance Force,
la missione a guida NATO in Afghanistan), per il numero di anni in
cui sono state dispiegate su suolo afgano, otterremmo una cifra
ancora maggiore a quella iniziale. In totale, fra polizia ed
esercito, l’Afghanistan può contare su circa 357 mila addetti alla
sicurezza, una quantità di uomini difficilmente sostenibile se un
giorno dovessero venire meno i finanziamenti occidentali.
In
Iraq, fino al 2012, gli Stati Uniti hanno speso 25 miliardi di
dollari per addestrare ed equipaggiare le nuove forze armate (271
mila soldati e 650mila poliziotti) ma sono molti gli interrogativi sorti sulle loro reali capacità e lealtà. Oltre ai già citati problemi che flagellano i loro
commilitoni afgani, le forze armate irachene hanno subito grandi
epurazioni a partire dal 2003 volte ad allontanare gli elementi
ba’athisti in esse presenti. Secondo molti analisti questo fu una delle scelte peggiori che l’amministrazione Bush
potesse prendere, dato che diverse centinaia di migliaia di persone
(tra i quali gli ufficiali con più esperienza) si ritrovarono
dall’oggi al domani prive di un lavoro e piene di rabbia, in un
paese in cui le armi abbondavano e sottoposto ad un’occupazione
militare straniera.
Recentemente
alcuni militari statunitensi hanno perfino accusato il premier Nuri
al-Maliki di utilizzare l’esercito per i propri interessi e di aver
marginalizzato al suo interno la componente sunnita. Una frattura che è stata avvertita profondamente sia nella società che nelle forze
armate irachene.
Molti
addestratori stranieri hanno poi sottolineato la mancanza di
professionalità degli uomini che stavano addestrando e a questa
critica è difficile non associare le notizie delle frontiere di
Giordania e Arabia saudita abbandonate dalle truppe irachene durante
l’avanzata dell’Isis, così come - fatto ancor più grave - sono
state abbandonate nelle mani degli jihadisti ingenti quantità di
materiale militare (spesso lasciati indietro dagli americani durante
il completamento del programma di ritiro dell’esercito
statunitense).
INGERENZE STRANIERE CONTEMPORANEE
Dove
“contemporanee” sta a sottolineare le differenze con quelle del
passato ma anche che sono all’opera più “centri di interferenza”
stranieri in contemporanea.
Il
capitolo riguardante le ingerenze straniere nelle politiche interne
di Afghanistan e Iraq è tra i più complessi da scrivere per la
schizofrenica quantità di mosse che i vari giocatori mettono in atto
pur di guadagnare un seppur minimo vantaggio rispetto ai loro
avversari. Del resto, in un mondo sempre più globalizzato, gli
interessi - economici, territoriali, culturali... - e le ambizioni di
potere dei tanti Stati si mescolano e si sovrappongono in un continuo
“grande gioco” privo di reali punti fermi.
L’Afghanistan,
oltre alle già citate influenze inglesi e russe e alle più ovvie
intromissioni statunitensi del recente periodo, ha sempre dovuto fare
i conti con un ingombrante vicino: il Pakistan.
Simbolo dell'ISI, servizi segreti del Pakistan. |
Sulle
interferenze di questo paese nella politica interna del suo vicino di
casa sono stati scritti fiumi di inchiostro ma, per i non addetti ai
lavori, ci sono alcuni punti fondamentali da ricordare.
I
servizi segreti pakistani, il cui nome - ISI, l’Inter
Services Intelligence -
per una tragica ironia della sorte è molto simile a quello del più
noto gruppo armato jihadisti, hanno conosciuto un’enorme espansione
a partire dagli anni Ottanta. Questo li ha portanti a manovrare
numerose personalità dell’esercito riuscendo così a controllare
l’Afghanistan dal punto di vista della politica estera e qualsiasi
altro aspetto della politica interna pakistana (media, religione,
economica, ecc.), una caratteristica tipica degli eserciti musulmani,
si vedano i casi dell’Egitto e dell’Iran. Tutto questo in un
gioco masochistico con la Cia, il cui denaro veniva usato dall’ISI
non solo per ammodernarsi ma anche per scavalcare i vari governi
pakistani e imporre la propria visione politico-religiosa radicale.
L’attenzione pakistana per l’Afghanistan conobbe un picco in
occasione dell’invasione sovietica del 1979 - ’89, quando gli
Stati Uniti, l’Arabia saudita e altri Stati arabi si servivano del
Pakistan per far arrivare ai mujaheddin afgani armi e rifornimenti e
lo stesso governo pakistano si attivava per sostenere il fronte
anti-sovietico. Con la fine della Guerra fredda però, gli USA hanno
ridotto il loro appoggio finanziario ai servizi segreti, i quali non
hanno comunque allentano la presa sul paese e sull’Afghanistan. A
sua volta l’ISI pensava di poter manovrare liberamente i talebani,
i quali invece, molto spesso, hanno dimostrato di non riconoscere
tale vincolo, approfittando anche dei legami con i pashtun pakistani
(che nel paese costituiscono il secondo gruppo etnico per numerosità)
per mettere in seria difficoltà l’esercito.
A
seguito degli attacchi dell’ 11 Settembre, il Pakistan rientra
rapidamente nella lista degli amici degli USA. Di fronte a sé il
presidente Musharraf vede il rischio della creazione di basi
statunitensi nella nemica India e abbandona (almeno ufficialmente) i
talebani al loro destino.
Oggi,
secondo molti afgani, sembra che il Pakistan stia attendendo il
ritiro americano per tornare a servirsi dei talebani e cercare di prendere il potere a Kabul.
L’altro
importante attore che si muove sullo scacchiere afgano è l’Iran.
Grande protettrice degli sciiti di tutto il mondo musulmano, Teheran
aiuta in più occasioni la resistenza dell’Alleanza del Nord nei
suoi continui scontri coi talebani, negli anni in cui questi ultimi
tentavano di impadronirsi di tutto l’Afghanistan. Nell'agosto del
1998, gli studenti coranici si impadroniscono di Mazar-i-Sharif e
sterminano gli hazara (sciiti) che vi abitano. Un piccolo drappello
di talebani entra nel consolato iraniano della città e vi massacra
undici cittadini iraniani fra personale diplomatico, membri
dell’intelligence (probabilmente coinvolti nel trasporto di armi
all’alleanza antitalebana) e giornalisti. Un mese dopo cade
Bamiyan, seguono altri eccidi di hazara e la distruzione delle statue
dei Buddha. L’Iran e il regime dei talebani sono sull’orlo di una
guerra, truppe vengono ammassate da entrambi i lati del confine.
Soltanto la mediazione dell’ONU riesce a raffreddare gli animi e ad
evitare un conflitto dagli esiti imprevedibili ma dagli altissimi
costi in termini di vite umane.
Guerrigliero dell'Isis durante la conquista di una città sunnita. |
Nella
recente crisi con l’Isis il sistema di influenze incrociate che si
era creato in Iraq è stato messo duramente alla prova: mentre Russia e Iran hanno confermato il loro tradizionale appoggio a Nuri al-Maliki (e
quindi al blocco sciita, rappresentato anche dalla Siria di Assad),
gli USA sono stati “costretti” a correre in aiuto di un premier
che non vogliono più. Obama ha perciò dovuto fornire di tutto
(consiglieri militari, soccorsi umanitari e raid aerei) al
traballante governo iracheno, meno le famose truppe di terra, il cui
coinvolgimento somiglierebbe troppo ad una nuova campagna in grande
stile, di cui Washington non sembra essere disponibile a sostenere i
costi. L’Arabia saudita e diversi Stati del Golfo - unici alleati
dell’Isis - hanno, almeno ufficialmente, tagliato i finanziamenti
che sostenevano l’avanzata jihadista. Al-Baghdadi del resto non
sembra averne particolarmente bisogno dato che, tra la conquista di
Mosul, lo sfruttamento dei pozzi petroliferi nell’est della Siria,
il contrabbando e i riscatti degli ostaggi ha a sua disposizione
oltre due miliardi di dollari1.
CONCLUSIONI
Non
è certo facile tracciare le conclusioni di un così complesso
mosaico di eventi, nomi, alleanze, sigle. Al di là di tutte le
somiglianze e delle differenze resta il fatto che l’Afghanistan e
l’Iraq, oggi, sono due paesi in grave crisi che, all'indomani
dell’uscita di scena degli USA potrebbero trasformarsi in
cosiddetti “stati falliti”, trascinando l’intera regione in un
enorme buco nero dalle conseguenze difficilmente prevedibili. I costi
in vite umane, già oggi non trascurabili, sarebbero certamente
pesantissimi e sarebbero l’ulteriore prova delle responsabilità
statunitensi quando decisero di invadere questi paesi. Responsabilità
che oggi costringono a individuare nelle armi l’unica soluzione
possibile alla crisi innescatasi. A oltre dieci anni dagli attentati
terroristici dell’11 Settembre le condizioni di vita degli afgani e
degli iracheni sono ulteriormente peggiorate e gli stentati progressi
ottenuti finora sono messi a repentaglio da gruppi fondamentalisti
mai così potenti e radicalizzati.
Ma il motivo per cui tutti - Washington in primis - dovrebbero osservare con attenzione la situazione irachena e trarne importanti lezioni per il futuro di entrambi gli Stati qui analizzati, è il fatto che ciò che accade oggi in Iraq potrebbe ripetersi in modo molto simile anche in Afghanistan, domani.
Marco Colombo
1
M. Chulov, I conti
segreti dell’Isil,
“Internazionale”, n. 1056, venerdì 20 giugno 2014, pagg. 18-19
Irachistan di Marco Colombo è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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