Irachistan: l'avanzata dell'Isis e la scomparsa di due Stati -- Pt. II

Irachistan


Continua l'analisi di TBU sulle similitudini e differenze fra Iraq e Afghanistan alla luce della recente ascesa dell'Isis. Qui potete trovare la prima parte dell'articolo. La terza e ultima verrà pubblicata domani.

COME GESTIRE UNO STATO E AIUTARE I PROPRI CITTADINI

L’assenza di idee su come gestire uno Stato è una caratteristica presente tanto tra le file dei miliziani dell’Isis quanto fra quelle dei talebani. Non a caso questi ultimi assunsero tale denominazione (il talib è lo studente islamico che cerca la conoscenza) proprio per distinguersi dai vecchi partiti politici corrotti e rissosi che dominarono l’Afghanistan dopo la fine della guerra contro i sovietici e i comunisti afgani del Partito democratico popolare dell’Afghanistan (PDPA).
Tra i due esempi presi in considerazione in questo articolo furono comunque i talebani a creare l’organismo di governo che più si avvicina ad un consiglio dei ministri occidentale, la Suprema Shura; essa è un organo decisionale che fin da subito si dimostrerà poco lungimirante e scarsamente attento ai bisogni dei gruppi etnici non pashtun e delle donne. Queste ultime saranno destinatarie di una serie di norme volte a limitarne sempre più la libertà personale: divieto di lavorare, divieto di andare a scuola, divieto di uscire di casa senza il burkha, divieto di portare i tacchi, divieto di truccarsi, ecc.
Vengono inoltre mantenute anche le cariche di governatori delle varie Province, istituzioni ereditate dai precedenti regimi, che comunque si vedono ridurre notevolmente i propri poteri (anche per la preoccupazione del mullah Omar che fra loro potesse emergere un nuovo leader capace di prendere il suo posto). Questi ruoli, così come quelli dei vari ministri, sono interscambiabili con quelli militari; ad esempio il mullah Abdul Razaq ricopre sia l’incarico di governatore di Herat sia quello di comandante per varie offensive portate in tutto il paese a partire dal 1994.
In Iraq invece, la gestione “politica” e “sociale” dei territori conquistati dal neonato califfato è sostanzialmente appaltata alle strutture di potere preesistenti, cioè il sistema tribale sunnita. Gli uomini dell’Isis si riservano il diritto di amministrare la giustizia (frequenti i casi di esecuzioni capitali e altre punizioni corporali considerate conformi alla Sharia) oltre che, ovviamente, di portare avanti l’azione militare. Non ci sono pervenute notizie di leggi proclamate dall’Isis nei territori da esso controllati riguardanti tutti gli altri settori considerati vitali per qualsiasi società (economia, welfare, sanità, ecc.).
Questi uomini sono il prodotto di decenni di conflitti e di violenze, hanno conosciuto solo la guerra, pertanto non sono amministratori, sono militari. Fin da piccoli sono cresciuti in ambienti prevalentemente maschili, non sono abituati alla presenza femminile attorno a loro. Quest’elemento viene perciò vissuto come una pericolosa distrazione dall’unica occupazione a cui il buon credente debba rivolgersi, cioè la preghiera. Tutto ciò che abbia a che fare con l’altro genere dev’essere nascosto e tenuto lontano dagli occhi in quanto costituisce una pericolosa tentazione e mette in pericolo il controllo totale che questi uomini hanno sulla società1.

Al-Maliki (sinistra) e Karzai (destra).
PROCESSO POLITICO
A seguito delle invasioni americane del 2001 e del 2003 in Afghanistan e in Iraq sono stati istituiti quelli che, pur con tutte le loro pecche e peculiarità, potremmo definire “regimi democratici”Sebbene il primo sia una repubblica presidenziale e il secondo una federale parlamentare, entrambi i paesi hanno conosciuto lo stesso uomo al comando dello Stato per più di un decennio, dopo l’invasione americana. Hamid Karzai per lo Stato asiatico, Nuri al-Maliki per quello mediorientale.
Rispetto alle asfittiche dittature del passato loro imposte, nei due Stati, anche a seguito della nascita di Parlamenti, governi, ministeri e partiti di diverso orientamento, il dibattito politico ha conosciuto una rapida evoluzione.
Restano però sul tappeto diversi problemi, tipici di quelle nazioni che non hanno mai conosciuto nel corso della loro storia e della loro tradizione politica un vero e proprio regime democratico (oltre agli inevitabili problemi, che poche giovani democrazie hanno dovuto sperimentare, legati ai frequenti attacchi terroristici volti ad ostacolare il processo politico a tutti i livelli).
In Afghanistan, gli ex signori della guerra scontratisi con i talebani nella sanguinosa guerra civile (durata dal 1994 al 2001) che ha preceduto l’invasione statunitense, si sono trasformati in governatori, leader di partiti politici o membri del Parlamento. Legittimati da USA e Europa e in grado di spostare grandi pacchetti di voti, impediscono un confronto elettorale veramente libero dai loro pesanti condizionamenti, inseguendo il proprio tornaconto personale, disinteressandosi delle reali necessità del popolo e alimentando un clientelismo diffuso e controproducente.
Il processo elettorale è costellato di continue accuse di brogli e manomissioni. Questo vale non tanto le presidenziali del 2004 e le parlamentari del 2005 (vissute in un clima di forte speranza a seguito della dura sconfitta inflitta ai talebani e all’inizio della ricostruzione), quanto piuttosto quelle successive del 2009 e di quest’anno. In queste due ultime tornate si è assistito ad un aumento degli attacchi terroristici e della disillusione dell’elettorato, che infatti ha disertato in massa le urne. Abdullah Abdullah, arrivato secondo dietro Hamid Karzai, si rifiuta di correre per il ballottaggio e si ritira dalla competizione in segno di protesta per l’impossibilità di ottenere un voto trasparente.


Il sistema politico iracheno invece è sempre stato dominato da un forte governo centrale e dai costanti conflitti fra le tre grandi etnie presenti nel paese. Queste due caratteristiche hanno reso particolarmente difficile la vita agli ultimi governi (dominati dallo sciita Nuri al-Maliki in veste di Primo ministro) che, del resto, non ha mai nascosto un certo suo autoritarismo.
Come nel caso afgano, anche in Iraq le elezioni sono state caratterizzate da frodi e attacchi terroristici. Ma, nel caso iracheno, tutto si è complicato quando, dopo le parlamentari del 2010, la nomina del nuovo governo è stata rimandata per sei mesi (nonostante la forte affluenza alle urne di tutte le comunità che caratterizzò quella tornata).
A partire da quelle elezioni, le occasioni di attrito fra sunniti e sciiti sono aumentate sempre più: nel settembre 2012 il vice presidente iracheno Tariq al-Hashimi viene condannato a morte e costretto all’esilio, nel marzo 2013 il ministro delle Finanze Rafi al-Issawi si dimette per i forti contrasti con il premier al-Maliki. Entrambi sono sunniti. Sempre nel 2013, ad aprile, una serie di manifestazioni sunnite vengono represse duramente dall’esercito iracheno. Tra le cause delle proteste vi sarebbero stati i mancati benefici economici che il Primo ministro aveva promesso ai combattenti tribali (sunniti) nel 2007, durante il cosiddetto surge. All’epoca, l’amministrazione Bush aumentò significativamente il contingente statunitense a Baghdad e nella provincia di Al Anbar appoggiandosi anche ai cosiddetti “Consigli del Risveglio”, alleanze fra tribù diverse, volte a contrastare l’azione di Al Qaeda in molte province irachene. Questa mancata inclusione delle minoranze si riflette del resto anche a livello militare; difatti molti dei “successi” dell’Isis sono stati favoriti dall’incapacità politica del governo iracheno che ha spinto molte città e villaggi a spalancare le porte “non tanto a Isis quanto alle milizie sunnite e ai soldati dell’ex regime di Saddam Hussein”, come scrive Nicola Pedde su Limes.
Infine si giunge ai giorni nostri. Dopo le elezioni parlamentari del 30 aprile la crisi politica si è allargata sempre più: a giugno la sessione inaugurale del nuovo Parlamento è stata boicottata da gran parte dei deputati sunniti e curdi e solo il 15 di luglio si è riusciti ad eleggere il Presidente del Parlamento (il sunnita Salim al Juburi). Nonostante l’evidente impasse politica e l’avanzata jihadista alle porte di Baghdad, al-Maliki (il cui partito ha effettivamente ottenuto 92 seggi sui 328 del Parlamento) ha ostinatamente cercato di ottenere un terzo mandato consecutivo, rifiutandosi di formare un governo di coalizione nazionale, di rivedere le sue politiche settarie e di varare misure realmente inclusive delle forze sunnite e curde. Soltanto il 14 agosto scorso l’ex Primo ministro ha ceduto alle pressioni interne ed esterne, permettendo così al nuovo Presidente della Repubblica Fuad Masum (curdo, eletto il 24 luglio) di nominare Haider al-Abadi (dello stesso partito di al-Maliki) al suo posto.


PRESENZA DI MINORANZE SUL TERRITORIO
Come abbiamo già detto in precedenza, il sogno dell’Isis è trasformare parte del globo in un califfato islamico di orientamento teologico sunnita. L’esistenza di minoranze - musulmane (curdi, sciiti...) e non musulmane (cristiani, ebrei, indù...), non è contemplata. E l’opzione posta loro di fronte nella maggior parte dei casi è: conversione o morte.
Tribalismo ed etnicità comunque mal si conciliano sia con l’idea di islam degli islamisti afgani sia con quella dei miliziani del neonato Stato islamico (l’evoluzione diretta dell’Isis). La loro è un’ideologia onnicomprensiva, radicale come il mutamento che vogliono imporre alle società su cui governano. Non è prevista flessibilità né diversità alcuna, né è concepibile altro elemento a cui giurare fedeltà che non sia la umma. Cioè la comunità dei credenti (che, nei secoli passati e nel musulmano medio, è stata invece soppiantata dal piccolo gruppo, dalla tribù, dal clan) a cui il Corano e Maometto si rifanno continuamente e che costituisce un pilastro fondamentale per ogni buon credente. Ma, come scrive sempre Ahmed Rashid: “[...] la jihad non approva l’assassinio del fratello musulmano sulla base dell’appartenenza a un’etnia o a una setta ed è questo, l’interpretazione della jihad data dai talebani [o dall’Isis, N.d.A.], che atterrisce i non pashtun.”2.
Nell’Afghanistan dei quattordici gruppi etnici e delle trentaquattro lingue non è difficile immaginare come tale interpretazione abbia portato a vasti e sanguinosi scontri tra le diverse comunità. Gli eccidi sono continui e tracciarne una cronologia sarebbe quasi impossibile. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare i talebani sono prevalentemente pashtun sunniti stanziati nel sud-est del paese (e con una rilevante presenza anche in Pakistan, lungo il confine settentrionale). Il nord è invece abitato da gruppi persiani e altaici come gli hazara (sciiti), i tagiki, gli uzbeki e i turkmeni, spesso a loro volta divisi in fazioni opposte. Questi ultimi si unirono nell’Alleanza del Nord verso la metà degli anni Novanta per contrastare i talebani e la loro avanzata verso le province settentrionali. Oggi, quella stessa Alleanza si è ricompattata nel Fronte nazionale dell’Afghanistan (la cui ala politica, la Coalizione nazionale dell’Afghanistan, ha sostenuto Abdullah Abdullah alle ultime elezioni presidenziali) in previsione del ritiro delle truppe occidentali dal paese e di un possibile ritorno al potere dei talebani. Un pessimo segnale per il futuro.

(2- continua)

Marco Colombo

1 Per cercare di capire le motivazioni alla base di questo difficile rapporto tra estremisti islamici e donne utilizzeremo ancora una volta le parole di Ahmed Rashid, uno tra gli autori che più hanno studiato il movimento afgano, tratte dal suo libro Talebani:
[...] si sono radunati volontariamente nella confraternita esclusivamente maschile che i leader talebani hanno creato, e lo hanno fatto perché non conoscono altro. Molti, in effetti, sono orfani cresciuti senza donne - madri, sorelle o cugine. [...] questi ragazzi vivono una vita aspra, durissima. Semplicemente, non hanno mai conosciuto la compagnia delle donne. [...]
Si sentono minacciati da quella metà del genere umano che non hanno mai conosciuto, ed è quindi molto più facile rinchiuderla, questa metà, soprattutto se a ordinarlo sono i mullah [...]” (ibidem, pag. 58).
Bisogna inoltre ricordare che, nel caso dei talebani, questi applicavano un rigido codice sociale di prescrizioni e leggi, il pashtunwali, adoperato solitamente dalla sola etnia pashtun e che essi tentarono di estendere, dopo averli sconfitti nella guerra civile degli anni ‘90, anche agli altri gruppi etnici dell’Afghanistan, tradizionalmente più attenti ai diritti civili delle donne.

2 A. Rashid, Talebani, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2010, pag. 119


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