Tre eventi occorsi recentemente nella cronaca internazionale danno un'idea lapalissiana di quanto sia problematica attualmente la posizione degli stati europei, sia nella loro interezza attraverso la piattaforma della Unione Europea ma anche, in alcuni casi, nella loro specificità, nei confronti della Russia di Vladimir Putin.
Vladimir Putin insieme al Presidente del Consiglio Matteo Renzi ad EXPO 2015 | Fonte: Palazzo Chigi/Flickr |
Il primo è stato il
quarto vertice sul paternariato orientale della UE, ovvero le
relazioni con i paesi che si sono formati dalla dissolvimento
dell'URSS, svoltosi il 21 e 22 maggio scorso a Riga, in Lettonia.
Infatti il meeting ha prodotto una conclusione prevedibilmente
orientata al basso profilo, con dichiarazioni addirittura meno
ambiziose del precedente incontro nel 2013 a Vilnius. Il motivo
principale? Il timore di irritare Mosca che, nella sua logica di
sfere d'influenza in stile guerra fredda, non vuole intromissioni da
parte di Bruxelles nella politica di Armenia, Azerbaijan,
Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina. Le più irritate da questa
timidezza sono state Kiev e Tbilisi, in particolare per la questione
della liberalizzazione dei visti. Da registrare d'altra parte anche
la dura presa di posizione dei due paesi probabilmente più
filo-russi, Armenia e Bielorussia, che si sono rifiutate di firmare
la dichiarazione preliminare, contenente una condanna all'aggressione del Cremlino in Ucraina e all'annessione forzata della Crimea.
Il secondo è stato il G7
che ha avuto luogo nella suggestiva location di Schloss Elmau in
Baviera, il 7 e l'8 giugno. Esattamente come l'anno scorso Vladimir
Putin non è stato invitato, sempre a causa della sua politica
espansionista ed aggressiva e del mancato rispetto delle norme di
diritto internazionale in Ucraina. Così il presidente americano
Barack Obama ne ha approfittato per ribadire con nettezza il suo
disprezzo verso il suo omologo russo e la sua spregiudicatezza in
politica estera. "Putin
sta scegliendo di mandare a pezzi l'economia russa [...] per ricreare
i fasti dell'impero sovietico”, ha tuonato Obama, da tempo
impegnato in una nemmeno tropo velata opera di lento sgretolamento
finanziario del regime instaurato dall'ex agente del KGB, per minarne
il consenso alle fondamenta. Angela Merkel e gli altri leader europei
naturalmente hanno fato eco alle dichiarazioni del capo di stato USA
e il G7 nel suo complesso, attraverso un comunicato finale, si è
detto “pronto ad assumere ulteriori misure restrittive per
aumentare i costi per la Russia se le sue azioni lo renderanno
necessario”. Ovvero se non ci sarà il rispetto degli accordi di
Minsk. Ma le sanzioni nuocono esclusivamente a Mosca o anche ai paesi
europei che intrattengono solidissimi e remunerativi legami
commerciali con essa?
La
risposta l'ha data il novello zar Putin, in visita all'EXPO di Milano
la scorsa settimana. “L'Italia è il quarto partner commerciale
della Russia ma recentemente gli scambi si sono ridotti del 10 per
cento e nell'ultimo trimestre sono scesi del 25 per cento” ha
affermato il presidente della Federazione Russa durante la conferenza
stampa con il premier Matteo Renzi, “È una situazione non
soddisfacente per i russi ma io credo anche per l'Italia. […] A
causa delle sanzioni le imprese italiane non possono guadagnare 1
miliardo di euro da contratti già siglati”. Il nostro paese
infatti è legato a doppio filo alla terra di Tolstoj e Dostoevsky:
noi esportiamo prodotti del lusso e cibi prelibati e ospitiamo
l'emergente classe borghese russa nelle sue vacanze, mentre loro in
cambio ci riforniscono di gas essenziale per scaldare le nostre
abitazioni e aziende d'inverno, coinvolgendo industrie di spicco come
Eni e Saipem.
L'approccio
da mantenere nei confronti di Vladimir Putin e della sua “democrazia
autoritaria” presenta tre criticità per i paesi dell'Unione
Europea. La prima è quella endemica della mancanza di coesione
interna. Si registra una frattura non semplice da sanare riguardo
alle relazioni con la Russia. Da una parte una coalizione tra stati
membri con modesti legami economici con Mosca (Gran Bretagna e le
nazioni scandinave) e altri preoccupati dall'assertività putiniana
(Polonia e repubbliche baltiche). Dall'altra stati
vincolati alle forniture di energia e fitti accordi commerciali
(Germania e Italia soprattutto ma anche Francia, tre big della UE).
Il primo gruppo di stati preme per la linea dura contro Putin, il
secondo, sapendo di rimetterci più di quanto ci guadagni, cerca di
raggiungere un delicato equilibrio diplomatico. La seconda è quella
dell'alleanza transatlantica con gli USA. Troppo strategica per la
sicurezza e troppo ancorata nella cultura di politica estera di molti
degli stati membri per essere messa eccessivamente sotto pressione.
Tanto più durante le trattative per la stipulazione del Ttip, il
patto transatlantico, deprecabile nei suoi aspetti “tecnici” ma
cruciale nella sua funzione geopolitica di rinsaldare la
collaborazione tra l'occidente contro i giganti asiatici e la Russia
stessa. Insomma la rottura con gli Stati Uniti sulla “Questione
Putin” non è un'opzione minimamente percorribile e auspicabile. La
terza è quella della reputazione dell'UE, attraverso le sue
manifestazioni come la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e
la stesso paternariato, come “potenza civile” nello scacchiere
globale. In altre parole, una forza esportatrice di valori come la
pace, la democrazia, lo stato di diritto e il rispetto delle norme
della comunità internazionale. Con tutte le contraddizioni e gli
intrinsechi limiti che un tale ruolo si porta dietro,
un atteggiamento troppo accomodante nei confronti di Mosca
comprometterebbe in maniera irrimediabile quest'immagine.
Ma
non è solo colpa della Russia se sussistono queste criticità.
L'insufficiente coesione all'interno dell'Unione dipende
principalmente dalla scarsa volontà da parte degli stati membri di
cedere ulteriori poteri politici ad un'istituzione sovranazionale,
tradendo così l'ispirazione federalista dei padri fondatori della
Comunità. Le incomprensioni con Washington nascono anche dal
progressivo disinteresse americano per il vecchio continente e dalla
priorità attribuita dall'amministrazione Obama al contenimento della
Cina nel Pacifico. L'identità di “potenza civile”, che sarebbe
fondamentale per lo sviluppo di una proiezione esterna coerente, è
minata dall'impassibilità di Bruxelles nei confronti
delle crisi umanitarie in medio oriente e in Africa sub-sahariana.
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