Non esiste un basket migliore o peggiore di un altro in assoluto: esiste solo il modo in cui lo si interpreta, il modo in cui si interiorizzano le filosofie – magari antitetiche -, ma che possono convivere e darsi battaglia per portare a casa la partite. Tante partite fanno una serie, e non sempre una serie la vince PER FORZA la squadra più forte.
Questa è la parafrasi del Tranquillo-pensiero: sbaglia chi tendeva all’appiattirsi sul semplicistico “eh ma Lebron fa tutto da solo, mentre Kerr i suoi li fa giocare”. Vero, in parte.
Opinabile, in larga parte.
Fate il cambio di panchine: mettete Ezeli al posto di Mozgov, e chiedetegli di giocare un isolamento in post basso. L’esito, quasi sicuramente, sarà un fallo in attacco o una palla persa.
Mettete Iman Shumpert nella schiuma gialloblù: probabilmente finirà affogato, o addirittura ai confini della panchina per non avere riguardo nei confronti della palla.
Già, perché il basket è un fatto di scelte, e i buoni allenatori non sono certo quelli che le proprie scelte le impongono, o le fanno digerire a forza ai propri ragazzi; i buoni allenatori non sono nemmeno quelli che mollano il colpo quando la tua superstar si mette a sparacchiare ma “deve restare in campo, gli escono i dollaroni dalle tasche”.
Amici miei, se intendete il basket così…grazie per l’interessamento, ma ci sono tanti sport meno impegnativi e più mentalmente adatti all’ozio.
Innanzitutto: onore e merito ai Warriors per aver riportato a casa un anello che mancava dal 1975; onore per averlo conquistato grazie alle proprie forze, lasciando perdere chi gli spalava pressione addosso minuto dopo minuto, serie dopo serie.
Alle Finals la musica è cambiata, e quel 67-15 si è sgretolato, volatilizzato, nascosto: non contano le statistiche, ma quello che riesci a vomitare nelle (almeno) 4 partite che ti separano dal sogno.
Per fare un esempio: l’MVP simbolico (ma nemmeno tanto) l’hanno dato a Iguodala, il giocatore manifesto del sacrificio che Kerr ha chiesto ai suoi per tutta la stagione.
E basta dire che “quelli tirano solo da 3 punti”, perché quei tiri si devono mettere, e si è visto – soprattutto in gara 2 e 3 – che conta più la qualità della costruzione di quella dell’esecuzione.
L’esecuzione tecnica è immutabile, interiorizzata, fissata nel codice fisico e genetico dei giocatori.
La costruzione , invece, cresce col vento, con la corsa, col ritmo, e quando non ce l’hai non te lo inventi nemmeno se sei Steph Curry.
Sono fermamente convinto che le partite, così come le serie, si vincano e si perdano per meriti e demeriti di chi c’è – non per forza di chi gioca, ma di chi sarebbe disponibile a farlo, rientrando nell’alveo delle scelte.
Blatt, da parte sua, di scelte da fare ne aveva poche: con Love, Irving e Varejao fuori, gli effettivi della rotazione erano poco più di 7 (aggiungiamoci anche Mike Miller, scongelato per l’occasione).
Paradossalmente, però, è stata proprio Cleveland ad avere un gioco meno prevedibile degli avversari.
Stop: ho detto “meno prevedibile”, non necessariamente entusiasmante o non “lebroncentrico”.
Sì, perché se ci si concentra a fare le pulci a James lo si nota tutti – tutti – che tende a tenere la palla ferma in attesa che qualcosa si muova.
Sì, vero, giusto, ma bisogna anche considerare che Cleveland non ha (o forse non ha mai avuto) un playmaker di ruolo, così che tutto passasse fra le manone del 23 – che intanto ha viaggiato sulla tripla-doppia comoda comoda.
Com’era già stato detto e scritto, Cleveland-Golden State è stato il giusto scontro tra filosofie diverse; è stato il duello a scacchi fra Blatt e Kerr, che hanno dimostrato come allenare sia ancora una cosa bella, per cui serva della testa e non solo delle gambe sul parquet. Kerr ha avuto il merito di non far calare mai la tensione ad Oakland, operando scelte forti e decisive come l’esclusione di Bogut a favore di Ezeli. Blatt ha avuto la (s)fortuna di non potersi troppo discostare dal proprio tipo di basket, quello che ha sempre proposto in stagione regolare e, paradossalmente, meno arginabile, soprattutto per la mentalità difensiva costruita in gregari come Dellavedova, Thompson, Shumpert e Jones.
Iguodala e Dellavedova sono le facce di un basket diverso, duro, a volte sporco, ma che riapre le braccia all’anima che molto spesso manca.
Queste Finals non le ha vinte Curry, così come non le ha perse James: nulla si fa in proprio, a parte dimostrare in mondovisione quanto il basket sia tornato ad essere uno sport fisico, ma che non può fare a meno dell’intelligenza tattica; di come il basket sia una metafora della vita: non importa cosa scegli, ma importa come fai quel che hai scelto di fare.
Le strade non sono mai fatte per essere percorse al contrario, e questo Lebron lo sa; lui, che ha deciso di tornare a Cleveland e trascinare un gruppo sfibrato dagli infortuni ad un passo dall’anello.
Sui libri di storia ci va la banda di Kerr, una squadra unita e solare, che ha imposto un modo di pensare e di giocare all’attenzione dei magnati occidentali.
Dall’altra parte una squadra battuta, ma non sconfitta, che ha spremuto orgoglio dalle radici australiani di Dellavedova, e basi di post basso dal russo Mozgov.
La storia, così come il basket, segue gli stessi principi dell’energia: non puoi crearla, non puoi distruggerla e nemmeno influenzarla.
Puoi solo buttartici dentro credendo di fare la cosa giusta.
E se lo sarà, salirai sul tetto del mondo ad urlare “so what?” a chi non si era accorto del leone che dormiva sotto gli occhi da cerbiatto.
Lorenzo Gualandi
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