Steph contro Lebron: la guerra dei mondi non è mai stata così bella

La schizofrenia del tempo di primavera non può certo oscurare i movimenti cestisticamente tellurici.
Fa pure strano essersi trovati di botto senza appuntamenti notturni in compagnia del Pes e di Flavio, a trangugiare caffè per assistere all’ultimo ricciolo di Klay, all’ennesimo rimbalzone di Draymond, al solito show di Lebron e alla consueta molestia made in Australia targata Delly-boy.
Il 4 giugno è il D-Day, gara 1, l’inizio delle Finals, e stavolta buona parte della polvere dalla mensola è già stata pulita, per fare spazio agli anelli.

NBA finals 2015

Le Finals 2015 sono sostanzialmente un prato verde e rigoglioso, in cui pascolano due greggi di pecore piuttosto grosse, con molte di queste che sfiorano i duecento centimetri.
Non inganni l’apparenza: tra queste stanno i lupi.
Uno veste il 23 (e non è MJ, ma sicuramente vuole ricordarlo), porta due anelli che gli ricordano il caldo di South Beach, e si è preso in spalla le altre pecorelle che stavano iniziando a brucare l’erba secca. “E’ tutto troppo facile”, urlava in faccia alle aquile che gli volavano attorno, timorose d’avvicinarsi a quella bestia feroce che s’accarezzava la lana tatuata.
L’altro ha il numero 30, ha gli occhi da cerbiatto ed è piuttosto magrolino. Parla fitto col pastore, un ex Toro rosso che alle dite ne porta 5, di anelli, e col ciuffo indica la via verso l’ultima discesa. Nessuno di loro ha mai visto cosa c’è, oltre la collina.
E’ di più di una barzelletta, è di più di una semplice serie playoffs, ed è molto di più che 7 (si spera) partite di basket.
Est e Ovest.
California e Ohio.
Witnesses e haters.
Testa e muscoli.
Collettivo e leader.
Steph contro Lebron.
Il cerbiatto arrogante contro IL re.
Golden State-Cleveland è la finale che in molti si erano immaginati: gli Spurs son capitolati al primo turno, sconfitti dai Clippers di Paul che, però, non hanno fatto i conti con la barba di Harden. I Rockets non sono stati sufficienti: son bastate 5 gare ai Warriors per rispedirli in Texas, mentre a nord del tabellone solo Memphis riusciva a mettere del pepe nella solita e qualitativa minestra gialloblù, che approcciavano la Western Conference con un clamoroso 67-15, ovvero con una percentuale di vittorie dell’82%!
A Est poche sorprese: avanti Cleveland, Chicago, Washington e Atlanta. Mentre Lebron schiacciava i Bulls – nonostante l’assenza di Love, infortunatosi contro i Celtics – Paul Pierce metteva paura alla prima dell’Est, che però si è guadagnata la finale di Conference grazie alle spalle larghe di Horford e Millsap, mentre Teague tagliava a fette gli esterni made in D.C.
Chi ha seguito buona parte delle serie potrà affermare che è mancato il cosiddetto thrilling, con pochi scontri finiti in 6 o 7 partite.
Dall’altra parte, chi non ha seguito un bel niente ma si mette in moto solo per la finale, può stare tranquillo: ci sarà da divertirsi, e probabilmente è giusto così.

E non iniziate a fare gli alternativi: Lebron si merita di stare dov’è, ha portato alle Finals un gruppo costruito per tutto fuorchè per le Finals, compreso un allenatore rookie ed europeo (David Blatt). Andiamo, su: se non volete essere witnesses, almeno siate realisti. Sì, vero, Cleveland probabilmente non gioca il miglior basket in circolazione, e nei momenti più difficili si modifica l’adagio così caro a Sacchi: palla a Lebron e pedalare, ma pedalare nel senso di liberare la strada per il camion targato LBJ23. “Il prescelto” – James – nell’anno di stravolgimento in cui è ritornato alle origini per riportare Cleveland a respirare ancora arie nobili di classifica, ha sviluppato una fiducia, un’aggressività, una supponenza che lo catapultano di diritto nel pantheon dei giocatori che bastano a fare una squadra.
Il parere di molti – e mi ci metto anche io fra questi – è che il basket espresso dai Cavs sia abbastanza anonimo, lento, ostaggio dell’umore di Lebron. Se parte a fare l’ariete, c’è il rischio che si porti tutti nel burrone, ma se si infila nella testa dei compagni – Irving in primis – è capace di portarli a toccare il cielo con un dito. E non importa dividersi tra bianco o nero, haters o witnesses: Lebron è così, e solo lui può permettersi di affettare basket con un coltello senza manici.

Dove va il prescelto non sempre arrivano anelli e visibilità – non solo, almeno: arrivano polemiche, pressioni, aspettative. La serie con i Warriors straccerà questo velo che era durato fin troppo: Lebron leggerà la pressione e le critiche? Blatt saprà allenare e gestire i propri ragazzi, imponendosi come un allenatore dovrebbe? Sapranno i compagni essere attori di contorno sul palcoscenico del 23, o si limiteranno a fare gli alberelli che ogni tanto frusciano con un colpo di ventilatore?
Se Lebron mostra i muscoli, Kerr gli lancia un lazo attorno al bicipite, e inizia a stringere.
Minima? Massima? Dica 33, anzi: VENTITRE’.
I terribili guerrieri del biondino ex Bulls una cosa la sanno: non andranno avanti se non tutti insieme, passo dopo passo. Ma come, scusate, da voi non c’è quello piccolino col numero 30, che sarebbe anche la media punti tenuta in questi playoffs? Non è proprio lui quello che ha battuto il record di triple segnate nei playoffs, detenuto da Reggie Miller (58 in 22 partite) ma frantumato dal mostruoso 59 in 13 (TREDICI), sempre di quello con gli occhi verdi e innocenti? E non è lui uno dei due Splash brothers, coppia del cesto formata con Klay Thompson (quello che sarebbe una stella dappertutto, fuorchè proprio ad Oakland)?

Piano, sarebbe troppo facile.
Kerr intanto predica un basket antitetico a quello lebronista: gli isolamenti del 23 vengono sostituiti da una costante marea gialloblù, che non si ferma per quaranta minuti. Movimento, spazio, creazione, lettura; è un basket stancante, vorticoso, avvolgente, che però paga. Paga anche grazie alla panchina infinita da cui Kerr può attingere in momenti di discesa: Iguodala, Barbosa, Livingston, Ezeli, hanno tutti portato il mattoncino in tasca fino a gara 5 con i Rockets del Barba e Howard. “Ok, Steve, noi abbiam fatto. Chiama quando hai bisogno”. Sta qua la semplicità dei Warriors, una squadra unita ma mai monodimensionale, aggressiva ma mai fuori controllo, ampia ma mai dispersiva.

Il 4 notte inizierà a dispiegarsi la pergamena della verità: chiunque esca sconfitto, avrà da ripensare a molto di quel che ha fatto. Sì, perché il basket è una questione di scelte, e se queste non pagano nessuno sarà così clemente da non farlo notare.
Se dovesse perdere Lebron, la sua figura da moderno Atlante si scioglierà e lascerà cadere il mondo che per tanto tempo ha sorretto. E’ solo un uomo, dopo tutto. E’un uomo che, però, ha dimostrato di essere più forte degli invidiosi, degli occasionali della pallacanestro, degli analisti da bar. Lebron continua a rappresentare il basket moderno, ed è per questo giusto che si scontri contro chi, dalla California, ne sta portando avanti uno tutt’altro che brutto, ma che mette in pericolo l’approdo del Re, costruito in anni di sacrifici e battaglie.
Non dal Nord come gli Estranei, ma da ovest arrivano i terribili ragazzi di coach Kerr. Una rivoluzione improvvisa, a cui nessuno era preparato, per cui nessuno ha trovato in tempo il vaccino (ripetiamo: primi nella loro conference perdendone solamente TRE alla Oracle Arena). Umorali anche loro, certo, appesi ai numeri di Curry e del suo status che è lievitato ed è entrato nell’orbita dei grandi campioni. Un leader, più che un capo, uno che mostra agli altri come tirare, e non solo urlando di farlo. Uno che sa lasciare spazio agli altri (Barnes, Thompson, Green) quando s’accorge di essere sotto tono.
E’ la guerra dei mondi, e purtroppo vi tocca scegliere: da che parte state?

Comunque non vi salverete. Siete già witnesses, comunque vada a finire.

Lorenzo Gualandi

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