Mettiamo
subito le cose in chiaro: Youth
non è un
brutto film, mai si potrebbe definire tale un prodotto realizzato con
un cast d’eccezione,
addetti al mestiere della portata di Luca Bigazzi (fotografia) e
David Lang (musiche), ma soprattutto con una produzione
internazionale alle spalle. Il problema di Youth
è l’aspettativa.
Non ci sarebbe bisogno di ricordarlo, ma per aiutarvi ad unire i
tasselli del percorso autoriale, è
importante ricordare cosa
ha preceduto quest’opera:
L’uomo
in più
(2001), Le
conseguenze dell’amore
(2004), Il
divo (2008),
This
must be the place
(2011), La
grande bellezza
(2013). Mi sono permessa di lasciare fuori L’amico
di famiglia,
semplicemente perché
— opinione personale —
meno rilevante ai fini
della costruzione della poetica personale del buon Sorrentino.
Poste
queste briciole di pane, giusto per orientarci nuovamente se
dovessimo retrocedere nella riflessione autoriale, risulta chiaro
come il percorso filmico è
stato in salita, fino a
raggiungere il climax dell’Oscar
con La
grande bellezza.
E ci tengo a sottolinearlo: meritatissimo. Come tutti i climax che si
rispettino però,
una volta consumati si inizia la discesa. Nel frattempo noi ci
eravamo appassionati, ci eravamo affezionati ai protagonisti
scontrosi e silenziosi, volevamo essere cullati dalle musiche e dalle
immagini, desideravamo addormentarci dopo aver ascoltato un altro
brano della fiaba. Insomma, ci eravamo creati delle aspettative.
A
parte i titoli di testa che non convincono, qualcosa ci fa storcere
il naso non appena iniziamo ad entrare dentro l’intreccio
(difficile definirlo in questo modo, ma tant’è):
un regista di mezza età,
in una stazione di cure termali, sta cercando di risolvere la
sceneggiatura del suo futuro film. Ha bisogno di riposarsi
fisicamente e psicologicamente. I giorni trascorrono senza che si
riesca a trovare una soluzione, e la sua ricerca di pace viene
continuamente interrotta dai personaggi che animano la stazione
termale, dalle visite che riceve e dai tecnici che stanno lavorando
con lui al film e soggiornano nello stesso albergo. Il protagonista
si chiama Guido Anselmi ed il film che vi ho appena raccontato è
8½
(1963) di Fellini.
Ora vi racconto Youth:
il vecchio regista Mick Boyle in una stazione di cure termali, sta
cercando di risolvere la sceneggiatura del suo futuro film. Ha
bisogno di riposarsi fisicamente e psicologicamente. Fred Ballinger,
un anziano direttore d’orchestra
e fedele amico di Mick, soggiorna in sua compagnia nell’albergo,
e deve invece riflettere sulla proposta ricevuta da un emissario
della regina Elisabetta, di dirigere un concerto a Buckingham
Palace. I giorni
trascorrono senza che si riesca a trovare una soluzione, e la loro
ricerca di pace viene continuamente interrotta dai personaggi che
animano la stazione termale, dalle visite che ricevono e dai tecnici
che stanno lavorando con Mick al film e soggiornano nello stesso
albergo. Bisogna quindi ammettere che, ad esclusione della figura di
Fred Ballinger, nella sceneggiatura di Sorrentino non solo risuonano
echi felliniani, ma per alcuni aspetti pare che egli abbia voluto
realizzare un vero e proprio remake di 8½.
Spunti
felliniani arrivano quindi dalla trama, dalla scelta dei tipi umani
che animano la stazione termale e dai tanti occhiali da sole usati
per completare i costumi. Oltre al capolavoro di Fellini, si passa al
setaccio anche La
Montagna incantata
di Thomas Mann: lo Schatzalp Hotel di Davos viene infatti citato in
questo romanzo. Andiamo però
oltre.
I
due protagonisti, Fred
e Mick, sono
interpretati rispettivamente dai sommi Michael Caine e Harvey
Keitel, che
ce la mettono tutta per contribuire a rendere l’opera
sublime. E di sublime qui si parla in senso romantico, è
«l'orrendo
che affascina»
di Burke. Eppure c’è
una distanza tra gli attori
e lo spettatore, qualcosa di freddo che non viene colmato nel modo in
cui aveva fatto Gep Gambardella, o comunque più
in generale dal Toni
Servillo alter ego di Sorrentino. Si percepisce chiaramente la
mancanza dell’alter
puro. In questo modo l’autore
è costretto
a mettere un po’
di se stesso in tutti i
personaggi, anche i quelli secondari, che intervengono per
pronunciare una sola battuta, e l’effetto
è,
necessariamente, straniante. Inoltre, confrontandoci con un intreccio
esile, ci si aspetterebbe che almeno venisse approfondita la
psicologia dei personaggi, invece tutto rimane sospeso: il tempo è
sospeso, lo spazio è
sospeso, le scelte, i
dialoghi. Quando ci si approssima alla conclusione, nella quale i due
protagonisti dovranno tirare le fila di tutte le riflessioni
compiute, non disponiamo degli strumenti necessari per comprendere a
fondo le loro decisioni, e tutto si trasforma in un cliché.
L’interpretazione
del mondo che vorrebbe trasmetterci Sorrentino precede l’azione
concreta e questo impedisce la comprensione di ciò
che poi accade. Gli
elementi di salienza (alcuni personaggi, musiche, inquadrature)
offrono quel tipo di esperienza emotiva che stimola la ricerca di
senso, e lo stile ben definito indubbiamente aiuta nella ricerca di
un significato alto. Ma il significato, quando arriva, è
talmente banale da
risultare svilente per lo spettatore stesso esser arrivato fino alla
fine per un «tutto
qua?».
Sorrentino
doveva dimostrare a se stesso di essersi meritato l’Oscar
e così,
preso dall’irrefrenabile
terrore di non essere all’altezza,
unitamente alla volontà
di confermarsi nel suo
stile, ha preso tutto ciò
che fa parte della sua
poetica (i tipi umani, i contrasti tra estrema bellezza/ripugnanza,
la riflessione sulla morte, la memoria, pacificarsi con il passato,
la fotografia nitida) e l’ha
messo dentro, senza approfondire nulla. Oltre a ciò,
ha aumentato la portata del cast scegliendo tra star straniere,
sforzandosi di fare un film internazionale, ma troppo forte è
il debito al cinema
italiano per risultare una scelta sincera. Uniformarsi ai canoni nordamericani non è
sinonimo di qualità.
Rimane quindi un’opera
manierista e fortemente retorica, con picchi di banalità
sconfortanti. È
tutto eccessivamente splendido o fortemente grottesco, la sana
mediocrità manca
completamente, forse proprio per questo suo bisogno di stupire il
pubblico senza soluzione di continuità.
Peccato. Ci piaceva così
tanto il grigiore di Titta
di Girolamo.
Note
di merito: la fotografia che riempie lo sguardo, il cambiamento delle
scelte di ripresa, meno movimenti di macchina e più
campi e controcampi, scelte musicali sempre impeccabili e un Paul Dano che non ha nulla da
invidiare ai mostri sacri con cui si confronta.
Roberta Cristofori
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