Leggere è un po’ come andare in
aereo: si sente la partenza, poi generalmente c’è una lunga fase
di stasi, magari funestata da qualche turbolenza, ma mai niente di
grave, e infine si atterra e tanti saluti. Di solito i libri sono
così: partono, stanno un po’ su e poi atterrano; aprono, cambiano
aria e poi richiudono. Descrivono sempre una specie di curva, che
torna poi ad adagiarsi sull’asse da cui è partita (attenzione,
però: non sto dicendo che tornano al punto di partenza).
All’inizio di un giallo di Agatha
Christie la situazione è tranquilla, e alla fine pure. Certo, c’è
stato un delitto in mezzo e alla fine si è scovato l’assassino,
quindi la realtà è cambiata, ma alla fine si è tornati di nuovo
alla tranquillità. Così funziona la maggior parte dei libri,
storici, fantasy, noir e tutta la narrativa in generale.
Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?
invece non è uno di questi, e per uno strano imprinting l’ho
capito dopo averne letto le prime due righe: “La persona che ami è
fatta per il 72,8% d’acqua e non piove da settimane”. È stato
così folgorante nella sua assurda chiarezza (“frittatona di
cipolle e ossimoro libero” direbbe qualcuno) che non poteva che
svilupparsi in modo non convenzionale.
Il protagonista, Mattias, ha nella
vita un solo desiderio: passare inosservato. Nascondersi nella massa,
non emergere, essere colui che compie il proprio dovere senza
lamentarsi per poi scomparire. Come il suo idolo Edwin “Buzz” Aldrin, secondo uomo sulla luna, che per un momento pensò di
dare una spinta ad Armstrong e diventare lui il primo, nello
stesso giorno della nascita di Mattias, il 20 luglio del 1969, ma
subito rinunciò all’idea, persuaso di dover compiere il suo dovere
anche sacrificando la fama.
Mattias all’inizio del romanzo è un
giardiniere norvegese di 29 anni, che trova nella cura di piante e
fiori la realizzazione dei suoi ideali di tranquillità e serenità.
Sembra che trovi sollievo nella lenta ma inesorabile crescita delle
sue piante, così come nella sua storia d’amore con Helle, che dura
ormai da circa quindici anni. Una specie di idillio della normalità:
tutto funziona, tutto cresce lentamente ma costantemente, tutto resta
meravigliosamente e normalmente uguale.
Naturalmente questa normalità nel
giro di poche pagine verrà spazzata via da eventi che non scriverò
di certo: basti sapere che Mattias si lascerà convincere dal suo
migliore amico Jørn a partecipare come tecnico del suono a una
trasferta della sua band per un festival che si tiene alle isole Fær Øer,
sperduto arcipelago quasi indipendente dalla Danimarca piazzato in
mezzo all’Atlantico: probabilmente quanto di più simile alla Luna
si possa trovare a poche ore di viaggio dalla Norvegia. Le isole sono
aspre, scoscese, umide, fredde, vi si parla una lingua diversa da
tutte le altre lingue scandinave, sono abitate da poche persone,
sparse tra innumerevoli villaggi che spesso contano meno di dieci
abitanti. E soprattutto alle Fær Øer non esistono alberi, perché
la salsedine e il vento costante ne impediscono la crescita.
In questa natura tutt’altro che
ospitale, che sembra riflettere tutt’a un tratto il mondo interiore
improvvisamente spalancatosi dentro Mattias, accadranno ancora
numerosi avvenimenti che non rivelo, ma che continueranno inesorabili
a destabilizzare il lettore, che non riuscirà mai a vedere la pista
d’atterraggio. In questo senso potremmo dire che questo libro non è
un volo di linea, ma una partenza verticale su uno razzo, come
l’Apollo 11. Continua ad alzarsi costantemente, in un’unica,
regolare ma ripida curva dall’inizio fino alla fine. Ecco spiegata
la mia strana sensazione, colta nell’incipit e poi
confermata dalla lettura di tutto il libro.
Non si può non amare Mattias, è
semplicemente impossibile. La disarmante sincerità con cui si rivela
al lettore (il libro è in prima persona) lo rende un personaggio da
imitare, anche se non è certo esente dai difetti che presto o tardi
colgono ognuno di noi. A momenti rasenta una sorta di sublime
declinazione dello zen, ad esempio quando si propone di scrivere un
libro:
“Manuale di base per una vita
lunga e felice. Metodo in tre fasi.
Inspirare.
Espirare.
Ripetere secondo necessità.”
Insomma, si tratta senz’altro di un
libro che vale la pena di leggere, qualcosa di catartico, a suo modo.
Leggetelo se vi
piacciono la natura selvaggia, i mari in tempesta, i Natali in
solitaria, le barche e le balene, le piante e i fiori, le cliniche
per ex pazienti psichiatrici, il pop svedese. O le partenze senza
l’obbligo di pensare al ritorno.
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