La tragedia dell'ascolto - Riflessioni sulla ricezione della musica - Pt. II

LA TRAGEDIA DELL'ASCOLTO 
Parte II – Galeotto fu il vinile

Nella prima parte di questa specie di reportage dalla sala-da-concerto-italiana-media sono arrivato a incolpare noi musicisti della scarsa attenzione con cui spesso il pubblico segue gli spettacoli musicali. Non ritratto, ma aggiusto il tiro. Perché, come sempre, la verità (assieme alla virtus) sta in medio. E se la musica è un’arte, allora deve comunicare, e ogni comunicazione ha bisogno di due estremi: smascherate le colpe di chi la fa, è ora il momento di chi la ascolta.
A questo proposito, il nostro Filippo Batisti mi consiglia un interessante articolo del Post, a firma di Filippo Facci. Leggendolo, mi colpisce quella che sembra un’ovvietà: “non ascoltiamo più come un tempo”. Dico “ovvietà” perché nel 2014 non si fa proprio nulla come un tempo. Non solo la lettura e l’ascolto, ma qualsiasi altra cosa, dalla cucina al giardinaggio, fino ai viaggi e allo spolverare gli scaffali. E allora? Rassegnarci all’evoluzione dei tempi o trincerarsi nella turris eburnea del “come si stava bene” (e da lì a “non ci sono più le mezze stagioni” e “si stava meglio quando si stava peggio” il passo è drammaticamente breve)? Andiamo un po’ più a fondo nella questione.

Che non si ascolti né si legga come un tempo è una verità indiscutibile, e di per sé non sarebbe un problema. Ma con alcune forme di arte, come la letteratura e, appunto, la musica, il cambiamento del tipo di ricezione (non parlerei ancora di “degenerazione”) genera un gap sempre più ampio tra quella che è la sostanza immutabile e, piaccia o no, antica dell’opera e il suo pubblico. Un’opera d’arte musicale è stata scritta in un periodo storico ben preciso, è figlia della sua epoca (come, tra l’altro, tutte le altre forme artistiche). Si può innovare fino a un certo punto, ma non si può reinventare all’infinito: c’è un limite alle interpretazioni della musica. Ci stiamo quindi avvicinando alla morte della musica? Prima o poi giungeremo all’inevitabile lacerazione tra pubblico e interpreti, i primi incapaci di ascoltare e gli altri incapaci di farsi comprendere? La stessa cosa accade con gli autori classici: senza traduzioni le persone in grado di leggere, che so, Lucrezio o Aristofane sarebbero pochissime. E la musica, purtroppo, non può avere traduzioni, è sempre l’originale che viene evocato sul palcoscenico.

Indagando sulle cause di questo progressivo scollamento mi vedo costretto a risalire fino a epoche relativamente remote: la seconda metà dell’ottocento. Siamo precisamente nel 1877, quando il buon Thomas Alva Edison avvia una rivoluzione nel campo musicale paragonabile a quella copernicana per l’astronomia: inventa il fonografo, incidendoci la storica e pregnante frase “Mary had a little lamb” (mi chiedo perché non abbia invece detto “lamp”, sarebbe stata una doppia pubblicità formidabile). Questa data segna ufficialmente un momento di svolta epocale nella storia dell’esecuzione musicale. La musica diventa improvvisamente riproducibile quasi a piacimento, dove si vuole, quando si vuole, quante volte si vuole. Da avvenimento rituale e raro diventa un fenomeno di massa. Dal punto di vista dei musicisti questo ha causato tutta una serie di problemi legati al condizionamento, conscio o inconscio, della propria interpretazione da parte delle sempre più numerose incisioni disponibili sul mercato. Al giorno d’oggi abbiamo accesso a talmente tante esecuzioni che diventa più facile imparare un brano a memoria ascoltandolo a ripetizione piuttosto che studiandolo a tavolino. Gli effetti nell’esecuzione si avvertono benissimo, ma questa non è la sede per discuterne.

Diamo invece un’occhiata agli effetti che la massificazione della musica ha prodotto sul pubblico (il pubblico medio, naturalmente: sono consapevole delle dovute e notevoli eccezioni). Saltando di un secolo e un quarto, ci troviamo ai giorni nostri: la musica è dappertutto (non la classica, ahimé, ma la musica in generale), ne siamo completamente circondati. In radio, in televisione, diffusa nei supermercati e persino nei parchi cittadini: non c’è quasi luogo pubblico in cui non sia presente. Rivolgiamoci alle tecnologie digitali: Youtube, iTunes e Spotify monopolizzano le nostre orecchie mettendoci a disposizione di fatto l’intera produzione musicale mondiale di tutti i tempi. Potrebbe essere una risorsa incredibile, uno straordinario strumento di cultura capillare. E invece? Invece è accaduto quello che è il rischio delle massificazioni incontrollate: un aumento della quantità si accompagna a una diminuzione della qualità.


Quindi si ascolta musica sempre e dovunque, ma proprio per questo la musica ha perso quella valenza comunicativa profonda e quell’unicità da evento irripetibile che aveva per il pubblico dell’ottocento (quello che assisteva senza battere ciglio a opere liriche di cinque ore, citato da Facci), diventando una forma di intrattenimento banalizzata e troppo comune per poter essere considerata davvero interessante. Trasportiamo tutto ciò nella nostra sala da concerto: il pubblico, anche quello relativamente selezionato che assiste ai concerti di musica classica (ipotizziamo per semplicità che chi va a un concerto ci vada per la musica, e non per una sorta di abitudine sociale, cosa che purtroppo accade abbastanza spesso), non presta più l’attenzione che avrebbe prestato anche poche decine di anni fa. Ciò si traduce, oltre che nei citati colpi di tosse, in un generale rilassamento critico che fa accogliere con entusiasmo sincero esecuzioni non dico mediocri, ma anche pessime. Si applaude per abitudine, come se non farlo fosse un’offesa ai musicisti, e come se per noi una critica non fosse un’occasione di crescita costruttiva!

Non so se tutto questo finirà per degenerare fino al punto di non ritorno, cioè alla profetizzata lacerazione definitiva tra interpreti e pubblico, e non so nemmeno cosa si può fare per arginare un fenomeno che ha assunto proporzioni incontrollabili. Forse nessuno riuscirà a fermare la tosse durante il concerto, ma a volte accadono piccoli miracoli che mi fanno ben sperare: l’altra sera, nel brano dello Schiaccianoci in cui una campana, sola con tutta l’orchestra che tace, suona i dodici, lenti rintocchi della mezzanotte, ho sentito dal pubblico il silenzio più bello della mia vita.

Alessio Venier


5 commenti:

  1. Hai perfettamente ragione: non so neppure io se tutto questo finirà per degenerare fino ad un punto di non ritorno, ma non bisogna mai perdere la speranza e la passione. La musica, come anche la lettura, sono arti che arricchiscono noi stessi, ma solo pochi riescono a comprenderlo pienamente. Per essere persone migliori e coscienti riguardo ciò che accade attorno a noi, ma soprattutto per capire al meglio il nostro mondo, diventando così parte attiva della nostra società, dobbiamo continuare a coltivare queste passioni così ricche di cultura e passato, senza lasciarci coinvolgere da quest'epoca così frenetica e vuota. Concordi? :)

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    1. Concordo su tutto. Non ho molta fiducia, perché credo che culturalmente la nostra civiltà si stia avviando al declino. Ciononostante non bisogna dimenticare che la ricezione dell'arte dipende da noi, e da noi soltanto. Siamo tutti parte attiva del processo artistico e, per quanto pochi, finché qualcuno resisterà, resisterà la Musica, che - suona tra il populista e il new age, ma lo dico comunque - è immensamente più grande di queste beghe da cortile (o da teatro). Un saluto!

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    1. Ci mancherebbe, non ho risposto semplicemente per mancanza di tempo. Contattami pure tramite alessio.venier1@gmail.com, così ti posso dare tranquillamente tutte le informazioni che desideri ma che, in effetti, poco c'entrano con questo articolo e con TBU. A presto!

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