Se
c’era una cosa di cui i libanesi non sentivano proprio la necessità
era di un altro motivo per imbracciare le armi. Se c’era una cosa
di cui i libanesi non sentivano proprio la necessità era un altro
esodo fatto di profughi provenienti da terre straniere. Se c’era
una cosa di cui libanesi non sentivano proprio la necessità erano
nuove autobombe nelle loro città.
Il Paese dei Cedri è un luogo dai mille volti e dalle mille possibili descrizioni, impossibili da raccogliere in poche righe eppure tutte in grado di convivere più o meno precariamente in uno spazio più piccolo del nostro Abruzzo. Da un lato i manifesti coi volti giovani e solenni dei martiri di Hezbollah, il “Partito di Dio”, mandati a morire in terra siriana; dall’altro le luci e le sagome dei grattacieli che come moderne Babeli frugano il cielo. Strano destino quello della “Svizzera del Medio Oriente”, simile – anche nella tragedia – a quello dell’altra Svizzera, quella africana, il Rwanda, che continua a piangere i suoi morti nel ventesimo anniversario del genocidio. Forse è giunto il momento di smettere di cercare epigoni della piccola federazione elvetica.
Nelle
puntate che hanno preceduto questo articolo abbiamo visto come la
guerra civile siriana abbia esondato dai suoi confini storici per
investire anche i suoi vicini e ciò è successo anche a causa dei
suoi vicini. In realtà, non è di sicuro il Libano a dover prendere
lezioni sugli effetti di una guerra, dato il suo pesante passato. Ma,
nonostante le ben note pagine nere degli anni passati (tra le quali è
impossibile non ricordare i quasi trent’anni di vera e propria
occupazione militare imposta dalla Siria al Libano, spesso
considerato una sorta di protettorato se non una vera e propria
provincia “perduta”al di fuori dei propri confini nazionali),
altri attori hanno deciso comunque di salire sul palco: il 19 ottobre
2012 Wissam al-Hassan, capo dell’intelligence libanese e nemico del
regime di Damasco, viene investito dall’esplosivo contenuto in
un’automobile e muore sul colpo. Il 19 novembre 2013 due kamikaze
appartenenti alle Brigate Abdullah Azzam si fanno saltare in aria nei
pressi dell’ambasciata iraniana a Beirut uccidendone l’addetto
culturale e alcuni membri della sicurezza dell’ambasciata, tutti
guarda caso appartenenti ad Hezbollah (che ha portato la sua
esperienza di guerriglia urbana in Siria e costituisce l’alleato
chiave di Assad assieme all’Iran degli ayatollah). Il 4 dicembre un
(o più) sicario uccide nel parcheggio dell’edificio dove vive
Hassan Hawlo al-Lakiss, figura chiave dell’organigramma militare di
Hezbollah. Il 27 dicembre un’autobomba esplode nella capitale ed
uccide Mohammed Shattah, economista, ex ministro delle Finanze
libanese, ex ambasciatore presso il FMI ma soprattutto esponente di
spicco di quel blocco sunnita che in Libano si oppone ad Hezbollah e
all’estero trova nell’Arabia Saudita il mentore principale a cui
ispirarsi. L’elenco potrebbe continuare a lungo in un folle
balletto di cifre, nomi, date e luoghi che rimandano ad altrettante
fazioni. Come abbiamo scritto aprendo questo articolo non sono certo
le motivazioni a mancare ad un attentatore, in Libano.
È
importante però non lasciarsi ingannare: se le bombe che abbiamo
poco sopra elencato sembrano mietere solo i protagonisti di questo
dramma, nella realtà neanche le semplici comparse possono dirsi
tranquille: dall’inizio della guerra civile in Siria (nel marzo del
2011) si calcola che oltre quattrocento persone abbiano perso la vita
in Libano, a causa di violenze riconducibili al conflitto al
confine1.
Poco
importa allo sciita Iran e alla sunnita Arabia Saudita di queste
pedine, l’importante è rafforzare o mantenere le proprie posizioni
e indebolire il rispettivo nemico regionale, ovunque esso si trovi.
Ribattere ad esso colpo su colpo, attaccarne i simboli – un
generale, un funzionario di ambasciata, o addirittura un intero
quartiere con una specifica maggioranza religiosa – diventa perciò
essenziale in questa lotta che, a chi segue le vicende della
criminalità organizzata nostrana, ricorda assai da vicino le
modalità delle sanguinose guerre di mafia.
Da alcuni è stata perfino avanzata la perversa ipotesi che gli attentati stiano in un qualche modo aiutando Hezbollah a veicolare quel senso d’assedio e di minaccia vissuto da molti sciiti residenti nel paese. Nulla renderebbe più facile di questo espediente il serrare i ranghi attorno ad una causa come quella del regime di Damasco, giustificando così l’invio di nuovi miliziani del Partito di Dio verso la terra siriana.
Sentimento che d’altronde è ampiamente ricambiato dagli ambienti libanesi di orientamento sunnita i quali sempre più, alla vecchia occupazione siriana sentono essersi sostituita la nuova longa manus iraniana, alimentando così paure e ricordi relativi all’invasione già sperimentata in passato.
Bandiera di Hezbollah e bandiera nazionale del Libano. |
Problemi
vecchi e nuovi, faide antiche che si trascinano fino ad oggi,
vendette trasversali, attentati dalle plurime firme, politica e
religioni, potenze regionali e globali, tutto si può trovare al
grande mercato libanese, e in grandi quantità. A dare le dimensioni
di questa lunga scia di sangue infatti, sono ancora una volta i
numeri, nudi e crudi.
100mila morti in una guerra civile che ha devastato il paese tra il 1975 e il 1990.Ai
455mila palestinesi (presenti nel Paese dei cedri dalla nascita dello
Stato di Israele nel 1948) sparsi per i dodici campi presenti sulterritorio libanese si
è aggiunto oltre un milione di profughi siriani;
e questo su una popolazione totale di meno di sei milioni di abitanti (secondo stime che non trovano conferma nei numeri reali, dato che
l’ultimo censimento risale al 1932, dopodiché si decise che la
prospettiva di stravolgere l’intero edificio istituzionale alla
luce di nuove percentuali che avrebbero significato nuovi equilibri
di potere fra le diverse etnie non era poi così allettante e di
censimenti ufficiali non se ne parlò più) e su un tessuto
socio-economico già duramente provato di per sé stesso. La
disoccupazione tra i giovani libanesi è infatti al 34% e 170mila
cittadini del Paese dei cedri sono a rischio di povertà secondo
stime delle Nazioni Unite.
C’è
da chiedersi se sarebbe il caso di portare questi numeri ai leghisti
di casa nostra, che fomentano paure primitive cianciando di invasioni
bibliche all’approssimarsi di ogni estate.
Abbiamo così visto come la crescente violenza in Siria si sia progressivamente espansa fino a contagiare i paesi confinanti come Iraq e Libano già duramente colpiti dalle loro lotte intestine. Nell’avviarci a concludere questo articolo ci rifacciamo alla domanda posta da Paul Salem, vicepresidente del Middle East Institute: “Riguardo la questione confessionale, molto dipende dalla rivalità tra sauditi e iraniani. Queste due potenze troveranno un accordo o continueranno la loro guerra per procura?”2. La risposta, osservando l’attuale situazione sul campo, sembra purtroppo essere negativa.
Marco Colombo
1
Meloni L., “Effetto domino”, Internazionale,
1049, pp. 64-69
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