Era
probabilmente il 2008. Appena entrato all’università e pieno di
voglia di consumare cultura, le mie orecchie smaniavano per qualcosa
di nuovo da ascoltare che facesse da colonna sonora ai miei anni
parcheggiati tra via Zamboni e San Giovanni in Monte. Poi, un giorno,
un amico legge su NME di questo nuovo gruppo di sbarbini di
Liverpool, con un nome buffo e un primo disco dal titolo
accattivante. Loro sono i Wombats,
il disco era The
Wombats proudly present: A guide to love, loss and desperation,
e io ci rimasi veramente sotto.
Il
mix di chitarre saltellanti, ritornelli catchy
e singalong
accuratamente studiati rendeva il primo lavoro dei Wombats una bomba
per qualsiasi circa-ventenne che ci avesse messo sopra le orecchie.
Erano il sottofondo musicale perfetto per le sbronze low cost del
martedì sera, ma anche – sorprendentemente – per i mal di testa
del giorno dopo. E il tutto era suonato senza la pretesa di fare a
tutti i costi della musica “seria”, ma solo con la voglia di
divertirsi e divertire, e questa è un’attitudine che ho sempre
apprezzato molto in qualsiasi gruppo.
Poi
arrivò il sophomore,
ben quattro anni dopo. Nel 2011 uscì The
Wombats proudly present: This modern glitch,
che mostrava palese il tentativo dei tre di rinnovarsi nel sound pur
mantenendo intatto il carattere. Ne viene fuori un disco da dieci
tracce pesantemente tinte di elettronica, con il MicroKorg del leader
Matthew Murphy
che impazza sopra gli strumenti analogici. Il risultato non è dei
migliori, ma resta una manciata di quei pezzi che se li senti in un
locale con due Negroni nel sangue li salti, eccome se li salti. E
forse li canti anche.
Nel
frattempo i vombati girano il mondo e arrivano anche a Bologna, dove
ho il piacere di vederli dal vivo all’I-Day
del 2011. Il live è
energico e coinvolgente, ti viene da ridere mentre guardi quel
norvegese del bassista che saltella per il palco in calzoncini e ti
godi il clima generale, danzereccio e autoironico.Dopo altri quattro anni arriva il terzo disco, che esce nell’aprile 2015 dopo una gestazione che vede i Liverpudlians annunciare una svolta di maturità per la loro musica. Glitterbug è preceduto da tre singoli, Your Body is a Weapon, Greek Tragedy e Give Me a Try, che dichiarano a gran voce quale sia la svolta ricercata dai Wombats: maturità, il tuo nome è “pop”.
Con
quest’ultima fatica, infatti, il trio lancia nel mondo un prodotto
se possibile ancora più spudoratamente ammiccante dei precedenti
due. Non a caso si scelgono come produttore Mark
Crew, di stanza a
Londra e già citato nei crediti di personaggi come Taylor Swift e
soprattutto i Bastille,
emblema e trionfo dell’indie che fa il botto e diventa mainstream
(come dicono alcuni) o, appunto, pop (come preferisco dire io). Il
che la dice lunga su quello che probabilmente è un piccolo complesso
di inferiorità nascosto – non benissimo – nei cuori dei nostri
ragazzi: i Wombats vogliono andare in America, diavolo, e vogliono
andarci alla grande. È l’enorme, ricchissimo mercato Usa che
vogliono sfondare, l’incubatrice in cui tutte le next
big thing della musica
mondiale devono entrare da bruchi per uscirne farfalle e dispiegare
il loro potenziale in giro per il pianeta, il test che si passa o nel
cui tentativo si muore.
Ovvio,
i ragazzi negli Stati Uniti ci hanno già suonato, e pure parecchio.
Non sono però mai riusciti a fare il colpo grosso, rimanendo di
fatto membri minori di quel club di “college bands” britanniche
che vanta una tradizione di tutto rispetto, dagli Smiths agli Arctic
Monkeys pre-Josh Homme. Per questo tutto, in Glitterbug,
grida stelle e strisce.
Tutto,
a partire dal filo conduttore che unisce i tredici pezzi dell’album.
Le canzoni sono istantanee, in ordine cronologico sparso, di una
storia d’amore fittizia tra Matthew “Murph” Murphy e una
ragazza losangelina.
Il disco è stato scritto nel corso di un soggiorno californiano del
cantante, ed effettivamente l’ambientazione è quella: è difficile
ascoltare Murph che canta “guiderò
questa Cadillac/sulla strada che costeggia l’oceano finché non
finisce la benzina”
e figurarselo sulla costa est del Galles. Le tematiche sono rimaste
quelle di sempre, affrontate con la solita ironia:
una storia a distanza (Give
Me a Try), il geek
che non ha fortuna con le donne (Your
Body is a Weapon), le
difficoltà di comunicazione del mondo moderno filtrato dalla
tecnologia (Emoticons),
una relazione distruttiva che non si riesce ad interrompere (Be
your Shadow). Anche lo
stile peculiare con il quale i testi vengono scritti e poi incastrati
sulla musica è lo stesso, e i fan di lunga data apprezzeranno.
Detto
questo, però, iniziano i dolori. Evidentemente il buon Murph ha
passato gran parte del suo viaggio nel Nuovo Mondo chiuso dentro
locali vintage e feste
nostalgiche: da un
punto di vista delle sonorità il disco è diviso in due parti
piuttosto nette, e le prime sei canzoni si collocano cronologicamente
nella dance-pop tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila. Se i
sintetizzatori di Give
Me a Try e Be
Your Shadow richiamano
alla mente i suoni dell’Eurodance di Gigi
D’Agostino e –
perché no – a volte sconfinano nel trash di Gunther,
Headspace
e This is not a Party
non possono non
ricordare gli Eighties, con i loro arpeggi dal sapore analogico e i
rullanti riverberati alla Billy
Idol. Un discorso a
parte lo meritano Give
me a try e Greek
Tragedy, smaccatamente
à la Katy
Perry nel tentativo di
ammiccare a chi compila le classifiche delle radio Usa. Una lancia va
spezzata però in favore della traccia 1, Emoticons,
che denota in effetti una maggiore maturità compositiva se non altro
nell’uso della voce.
Poi
lì, in mezzo al disco, siede Isabel,
a metà tra un’oasi di pace momentanea e uno spartiacque. Anche se
forse un po’ derivativa (i Coldplay
affiorano qua e là, senza parere) la canzone arriva al momento
giusto per calmare gli animi e fermare la sudorazione, almeno per un
po’. Se la si ascolta bene e con calma, diventa uno di quei pezzi
che ti fanno venire voglia di affondare la faccia nei capelli di
qualcuno e restare lì per qualche minuto, dimenticando quello che
c’è intorno.
Però
bisogna venire fuori da lì, perché dopo la tappa ricomincia il
viaggio, e il paesaggio
è cambiato. Nella
seconda parte del disco i vombati si ricordano chi sono, ritirano
fuori chitarra e basso e decidono di suonare un po’ più simili a
come eravamo abituati a vederli. In una delle due bonus track,
Flowerball,
addirittura non si sente nemmeno un sospetto di elettronica.
Ritorna anche la vecchia dicotomia centro/periferia che anima loro, me e tutti i provinciali del mondo, e quando Murphy canta “Sometimes I like to go uptown/Where flashy people flash around” la mente corre subito al loro anthem per eccellenza, Let’s dance to Joy Division, e alla linea che recita “So if you’re ever feeling down, grab your purse and take a taxi/to the darkest side of town, that’s where we’ll be” che fa tanto proletariato, Tatcherismo e sindacati. La ballatona powerpop Pink lemonade è orecchiabile e danzereccia, e anche The English Summer tutto sommato diverte.
Peccato
che i pezzi non siano ancora convincenti. L’impressione generale è
che manchi un vero motore alla base della composizione, che le
canzoni siano fondamentalmente delle marchette
venute fuori benino perché i ragazzi sono bravi, ma vuote,
senza ispirazione. Il
punto più basso lo raggiunge Curveballs,
che ad un orecchio disattento può andare bene come rumore di fondo,
ma che a un esame più approfondito risulta essere priva d’intenzione
e di senso come un romanzo di Valerio Massimo Manfredi.
Non
so se ho interpretato bene i titoli degli album, ma mi sembra
significativo che gli ultimi due lavori della band siano traducibili
rispettivamente come “Questo
errore moderno” e
“Anomalia luccicante”
(sia glitch
che bug
sono termini utilizzati in informatica per indicare un errore o un
malfunzionamento), così come ancora più significativa è la
scomparsa della dicitura “The
Wombats proudly present”
davanti al titolo dell’ultimo disco. I ragazzi di Liverpool
vogliono scrollarsi di dosso l’aria da gente che suona alle feste a
cui si gioca a beer-pong affibbiatagli con il primo disco, e forse
hanno anche il talento per farlo; ma è già il secondo tentativo che
falliscono, almeno in parte, e francamente non so quante vite siano
loro rimaste in questo gioco.
Nessun commento:
Posta un commento