SundayUp - Sarban, "Il richiamo del corno" (Adelphi, 2015)

John William Wall è un mite e poco ambizioso funzionario diplomatico inglese, che ha scelto quel tipo di carriera nelle zone del Medio Oriente perché “Flecker, la cui poesia ho amato durante la scuola, era nel Servizio Consolare del Levante”. Sorvolando sulla scarsa notorietà del poeta Flecker, che si limita a essere citato qua e là da Agatha Christie, da Borges e in Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà, colpisce la discutibile consistenza della motivazione professionale di Wall. Come niente fosse, si ritrova a lavorare a Beirut (Libano), Jeddah (Arabia Saudita), Tabriz e Isfahan (Iran), Casablanca (Marocco), ma coltiva distrattamente anche il pallino della scrittura, con lo pseudonimo di Sarban (“carovaniere” in parsi). La sua produzione è estremamente ridotta, limitandosi a una manciata di racconti.


Sarban
Il richiamo del corno (The Sound of His Horn in lingua originale), pubblicato nel 1952, pare sia la sua opera più consistente (tra quelle pubblicate), e si situa esattamente a metà tra il racconto e il romanzo: è un romanzo breve o un racconto lungo, insomma un appartenente a quella categoria-limbo che fa impazzire editori e recensori che non sanno come considerare il testo in questione. Sorvoleremo quindi su cosa sia di preciso quest’opera dal punto di vista formale, addentrandoci un po’ meglio sui contenuti.
Si tratta (e dobbiamo ancora scomodare categorie “di confine”) di una sorta di racconto distopico-onirico: un normale ritrovo tra vecchi amici nel 1949 è la cornice verosimile e realistica che racchiude, sotto forma di “racconto nel racconto”, la lunga narrazione del protagonista Alan Querdilion. Racconta una strana esperienza capitatagli dopo essere evaso da un campo di lavoro tedesco in cui era prigioniero di guerra. Fuggendo nella notte incappa inavvertitamente in una barriera di strani raggi che delimitano una proprietà, Hackelnberg. Perde i sensi e si risveglia in una stanza d’ospedale, assistito da infermiere personali e sottoposto alle cure dell’enigmatico Herr Professor Doktor Wolf Von Eichbrunn. Tutto sembrerebbe andare per il meglio, le sue condizioni di salute migliorano giorno dopo giorno, ma una misteriosa presenza si manifesta nelle notti di luna, con un lontano suono di corno da caccia che riecheggia nell’immensa foresta che circonda il piccolo ospedale. Il Dottore e le infermiere sono evasivi, e sembrano anch’essi spaventati da quei misteriosi richiami notturni, ma si rifiutano di rivelare di cosa si tratti.
Come se non bastasse, quasi per caso Alan scopre che, per qualche ragione ignota, dalla notte in cui ha perso i sensi non sono passati pochi giorni, come credeva, bensì 102 anni: nel frattempo i nazisti hanno vinto la guerra e conquistato gran parte dell’Europa. Gradualmente gli si rivela un mondo progredito nel tempo e nei mezzi tecnologici, ma irrimediabilmente regredito moralmente fino a – di nuovo! – una via di mezzo tra il medioevo e la preistoria.

Il Graf (“conte”) Johannes Von Hackelnberg, Gran Maestro delle Foreste del Reich, è il proprietario dell’immensa tenuta, che amministra in perfetto stile feudale. La sua figura è quasi mostruosa, una specie di orco che sembra uscito direttamente dalle antiche saghe germaniche, condito con un po’ di feudalesimo morboso e con lati da serial killer. Per il suo personale diletto alleva ogni sorta di animali, aggiungendo, con un pizzico tipicamente distopico di eugenetica malata, innumerevoli schiavi muti clonati da un unico “esemplare”, creature in bilico tra la natura umana e quella animale, e un notevole numero di “prede” che si rivelano esseri umani bizzarramente travestiti per fungere da selvaggina nel corso delle battute di caccia che il Graf organizza per sé e per i suoi ospiti.
Anche il nostro Alan diventerà prevedibilmente una potenziale preda del Graf Von Hackelnberg, ma qui ci fermiamo perché lo spoiler alert ha iniziato a suonare in modo pressante…

Racconto lungo o romanzo breve che sia, è un libro che si fa leggere in modo decisamente fluido: la suspense è sempre presente ma mai invadente, e non bisogna dimenticare che si tratta comunque di ottima letteratura, che non si serve mai dei soliti trucchetti acchiappa-attenzione. Lo stile è asciutto ed essenziale, non indugia più del dovuto nel torbidume psicologico (che, ammettiamolo, spesso è un po’ fine a se stesso) ma allo stesso tempo si mantiene decisamente lontano dall’opposto, cioè una fredda cronaca senz’anima. Equilibrato è la parola giusta, probabilmente.
Ed è proprio questo a sfuggire alle categorie: si tratta sì di una vicenda distopica, se isoliamo la pura narrazione del protagonista, ma l’inizio e la fine del romanzo (o quel che è) sono improntate al più coerente realismo (la “cornice letteraria” ambientata nel 1949 in una tranquilla casa inglese), e in questo modo il racconto di Alan diventa qualcosa di palesemente irreale, a meno che non si pensi che sia in grado di viaggiare nel tempo a piacimento. Una narrazione onirica, dunque,
costantemente in bilico tra realtà e allucinazione. Cos’è vero e cosa è falso nel racconto di Alan? Ha semplicemente perso i sensi e sognato tutto? Eppure il suo sogno è di una coerenza cristallina e dettagliato come non mai. Forse è impazzito per un breve periodo di tempo, come lui stesso ritiene? Il futuro da lui immaginato, o “visitato” (qualunque cosa voglia dire) è irreale o soltanto in attesa di realizzarsi? Lui non pare credere a quello che ha visto, limitandosi a cogliere quello che di buono gli ha dato quell’esperienza: una nuova consapevolezza di sé e del suo rapporto con gli altri (e forse per la prima volta questo testo ricade dentro una sola precisa categoria: il romanzo di formazione).
Ma una volta chiusa l’ultima pagina resta il meraviglioso dubbio “ma chissà, forse…” che è quello che, almeno a mio parere,
lascia incollati a un libro anche dopo averlo finito.

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