John William Wall è un mite e poco
ambizioso funzionario diplomatico inglese, che ha scelto quel tipo di
carriera nelle zone del Medio Oriente perché “Flecker, la cui
poesia ho amato durante la scuola, era nel Servizio Consolare del
Levante”. Sorvolando sulla scarsa notorietà del poeta Flecker, che
si limita a essere citato qua e là da Agatha Christie, da Borges e
in Agente 007 - Al servizio segreto di Sua Maestà, colpisce
la discutibile consistenza della motivazione professionale di Wall.
Come niente fosse, si ritrova a lavorare a Beirut (Libano), Jeddah
(Arabia Saudita), Tabriz e Isfahan (Iran), Casablanca (Marocco), ma
coltiva distrattamente anche il pallino della scrittura, con lo
pseudonimo di Sarban (“carovaniere” in parsi). La sua produzione
è estremamente ridotta, limitandosi a una manciata di racconti.
Sarban |
Si tratta (e dobbiamo ancora scomodare
categorie “di confine”) di una sorta di racconto
distopico-onirico: un normale ritrovo tra vecchi amici nel 1949 è la
cornice verosimile e realistica che racchiude, sotto forma di
“racconto nel racconto”, la lunga narrazione del protagonista
Alan Querdilion. Racconta una strana esperienza capitatagli dopo
essere evaso da un campo di lavoro tedesco in cui era prigioniero di
guerra. Fuggendo nella notte incappa inavvertitamente in una barriera
di strani raggi che delimitano una proprietà, Hackelnberg. Perde i
sensi e si risveglia in una stanza d’ospedale, assistito da
infermiere personali e sottoposto alle cure dell’enigmatico Herr
Professor Doktor Wolf Von Eichbrunn. Tutto sembrerebbe andare per il
meglio, le sue condizioni di salute migliorano giorno dopo giorno, ma
una misteriosa presenza si manifesta nelle notti di luna, con un
lontano suono di corno da caccia che riecheggia nell’immensa
foresta che circonda il piccolo ospedale. Il Dottore e le infermiere
sono evasivi, e sembrano anch’essi spaventati da quei misteriosi
richiami notturni, ma si rifiutano di rivelare di cosa si tratti.
Come se non bastasse, quasi per caso
Alan scopre che, per qualche ragione ignota, dalla notte in cui ha
perso i sensi non sono passati pochi giorni, come credeva, bensì 102
anni: nel frattempo i nazisti hanno vinto la guerra e conquistato
gran parte dell’Europa. Gradualmente gli si rivela un mondo
progredito nel tempo e nei mezzi tecnologici, ma irrimediabilmente
regredito moralmente fino a – di nuovo! – una via di mezzo tra il
medioevo e la preistoria.
Il Graf
(“conte”) Johannes Von Hackelnberg, Gran Maestro delle Foreste
del Reich, è il proprietario dell’immensa tenuta, che amministra
in perfetto stile feudale. La sua figura è quasi mostruosa, una
specie di orco che sembra uscito direttamente dalle antiche saghe
germaniche, condito con un po’ di feudalesimo morboso e con lati da
serial killer. Per il suo personale diletto alleva ogni sorta di
animali, aggiungendo, con un pizzico tipicamente distopico di
eugenetica malata, innumerevoli schiavi muti clonati da un unico
“esemplare”, creature in bilico tra la natura umana e quella
animale, e un notevole numero di “prede” che si rivelano esseri
umani bizzarramente travestiti per fungere da selvaggina nel corso
delle battute di caccia che il Graf organizza per sé e per i
suoi ospiti.
Anche il nostro Alan diventerà
prevedibilmente una potenziale preda del Graf Von Hackelnberg,
ma qui ci fermiamo perché lo spoiler alert ha iniziato a
suonare in modo pressante…
Racconto lungo o
romanzo breve che sia, è un libro che si fa leggere in modo
decisamente fluido: la suspense è sempre presente ma mai
invadente, e non bisogna dimenticare che si tratta comunque di ottima
letteratura, che non si serve mai dei soliti trucchetti
acchiappa-attenzione. Lo stile è asciutto ed essenziale, non indugia
più del dovuto nel torbidume psicologico (che, ammettiamolo, spesso
è un po’ fine a se stesso) ma allo stesso tempo si mantiene
decisamente lontano dall’opposto, cioè una fredda cronaca
senz’anima. Equilibrato è la parola giusta, probabilmente.
Ed è proprio questo a sfuggire alle categorie: si tratta sì di una vicenda distopica, se isoliamo la pura narrazione del protagonista, ma l’inizio e la fine del romanzo (o quel che è) sono improntate al più coerente realismo (la “cornice letteraria” ambientata nel 1949 in una tranquilla casa inglese), e in questo modo il racconto di Alan diventa qualcosa di palesemente irreale, a meno che non si pensi che sia in grado di viaggiare nel tempo a piacimento. Una narrazione onirica, dunque, costantemente in bilico tra realtà e allucinazione. Cos’è vero e cosa è falso nel racconto di Alan? Ha semplicemente perso i sensi e sognato tutto? Eppure il suo sogno è di una coerenza cristallina e dettagliato come non mai. Forse è impazzito per un breve periodo di tempo, come lui stesso ritiene? Il futuro da lui immaginato, o “visitato” (qualunque cosa voglia dire) è irreale o soltanto in attesa di realizzarsi? Lui non pare credere a quello che ha visto, limitandosi a cogliere quello che di buono gli ha dato quell’esperienza: una nuova consapevolezza di sé e del suo rapporto con gli altri (e forse per la prima volta questo testo ricade dentro una sola precisa categoria: il romanzo di formazione).
Ma una volta chiusa l’ultima pagina resta il meraviglioso dubbio “ma chissà, forse…” che è quello che, almeno a mio parere, lascia incollati a un libro anche dopo averlo finito.
Ed è proprio questo a sfuggire alle categorie: si tratta sì di una vicenda distopica, se isoliamo la pura narrazione del protagonista, ma l’inizio e la fine del romanzo (o quel che è) sono improntate al più coerente realismo (la “cornice letteraria” ambientata nel 1949 in una tranquilla casa inglese), e in questo modo il racconto di Alan diventa qualcosa di palesemente irreale, a meno che non si pensi che sia in grado di viaggiare nel tempo a piacimento. Una narrazione onirica, dunque, costantemente in bilico tra realtà e allucinazione. Cos’è vero e cosa è falso nel racconto di Alan? Ha semplicemente perso i sensi e sognato tutto? Eppure il suo sogno è di una coerenza cristallina e dettagliato come non mai. Forse è impazzito per un breve periodo di tempo, come lui stesso ritiene? Il futuro da lui immaginato, o “visitato” (qualunque cosa voglia dire) è irreale o soltanto in attesa di realizzarsi? Lui non pare credere a quello che ha visto, limitandosi a cogliere quello che di buono gli ha dato quell’esperienza: una nuova consapevolezza di sé e del suo rapporto con gli altri (e forse per la prima volta questo testo ricade dentro una sola precisa categoria: il romanzo di formazione).
Ma una volta chiusa l’ultima pagina resta il meraviglioso dubbio “ma chissà, forse…” che è quello che, almeno a mio parere, lascia incollati a un libro anche dopo averlo finito.
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