Un paio d’estati fa me
ne stavo seduta in terrazza con una pila di libri per la tesi, una
bottiglia d’acqua ghiacciata e la pagina di Youtube aperta, tanto
per farmi coraggio. Stavo scorrendo alcuni video di KEXP, una stazione
radio no profit di Seattle che ospita singoli musicisti, band in
voga, cantautori emergenti o affermati. Il live in uno studio di
registrazione è il compromesso perfetto fra perché il suono risulta
pieno, autentico, ricco e soddisfacente, pronto a fornirti
un’emozione che, certo, non può competere col brivido di
soddisfazione e piacere che ti accarezza braccia e schiena durante i
concerti, ma che è decisamente più appagante del suono
preconfezionato della solita esibizione televisiva. Nei video
consigliati, tra gli Orgone, una trascinate e calorosa band funky di
Los Angeles, e un’intervista ai Lumineers, ho scorto una puntata
dedicata a un artista che non avevo mai sentito prima e che ben
presto sarebbe diventato un’ossessione.
Kristian Matsson,
conosciuto col nome d’arte The Tallest Man
on Earth (Leksand, 30 aprile 1983), è un
cantautore svedese in grado di padroneggiare perfettamente chitarra,
banjo e pianoforte. Compone e canta le sue meravigliose canzoni in
inglese. A partire dal 2006 ha pubblicato tre album (Shallow
Grave nel 2008; The
Wild Hunt nel 2010, There's No Leaving Now
nel 2012) e due EP: The Tallest Man on Earth (2006) e Sometimes the
Blues Is Just a Passing Bird (2010). La sua voce calda,
delicatamente nasale e vibrante ricorda quella di Bob Dylan- non a
caso è stato anche definito “il Bob Dylan dei ghiacci”- o anche,
perché no, quella di Tom Waits per la sua teatralità e pienezza
quasi alcolica, per il suo stile folk talmente personale e
coinvolgente da generare dei suoi propri standard cantautoriali.
La prima canzone eseguita nello studio di KEXP per un bel po’ è rimasta l’unica che io sia riuscita ad ascoltare per intero, perché, come la vedevo avviarsi verso la fine, ricaricavo immediatamente la pagina per ascoltarla di nuovo. Wind and Walls, vento e mura,
Li avevi sentiti dire
“è tutto in ordine”, ma ti sbagliavi:
Sei partito per capire
che cosa non avevi dentro.
La luce si sta muovendo
lentamente, riuscirà a stendersi sulle pianure?
Non passerai più notti
come quelle di cui scrivevi,
Non sentirai più il
sollievo della pioggia mai caduta.
È la buonanotte del
solitario, il mantra del malinconico, il manifesto in cinque versi di
un pensiero controcorrente. In un momento di incertezza e paura del
futuro, l’ultima cosa che vuoi è davvero che “tutto sia in
ordine” perché l’ordine ti toglierebbe, in maniera spietata e
asettica, anche l’ultima speranza di riuscire a cambiare tutti gli
aspetti della tua vita che vorresti avere il coraggio di strapparti
di dosso, ma di cui non riesci a liberarti per la meticolosità con
cui li ha incastrati dentro di te. Ho continuato ad ascoltare Wind
and Walls in maniera ostinata e maniacale, la
stessa patologia di quelli che vanno al cinema quasi solo per
comprarsi un sacchetto di caramelle gigantesco, l’incubo di un
diabetico, per intenderci, e poi continuano a promettersi: “Sto
mangiando l’ultima” o “Adesso basta, questa è l’ultima,
davvero”, ma non riescono a smettere di ruminare nel buio e alla
fine si attirano il rimprovero, l’odio e il malocchio da parte di
tutto il resto della sala.
A me nessuno ha chiesto di aspettare l’intervallo o ha borbottato “ssssh!” a intervalli regolari, in compenso per un lungo, interminabile periodo di disintossicazione, nessuno dei miei amici mi ha più lasciato finire la frase “Ti faccio ascoltare una canzone meravigliosa”. Anzi, molti di loro hanno cominciato a insospettirsi e a diventare poco simpatici e decisamente maldisposti ogni volta che mi capitava di nominare la Svezia. Per fortuna, col passare dei mesi, la mia ossessione si è affievolita, la passione folle ha lentamente lasciato il posto a una forma di piacere più delicata e meno irritante e monotona per le orecchie altrui. Continuo ad amare Wind and Walls, ma non me la infilo trionfante nell’orecchio più di una volta alla settimana e, nel frattempo, sono finalmente riuscita a completare l’ascolto non solo di There’s no Leaving Now, ma dell’intera discografia di Kristian Matsson.
A me nessuno ha chiesto di aspettare l’intervallo o ha borbottato “ssssh!” a intervalli regolari, in compenso per un lungo, interminabile periodo di disintossicazione, nessuno dei miei amici mi ha più lasciato finire la frase “Ti faccio ascoltare una canzone meravigliosa”. Anzi, molti di loro hanno cominciato a insospettirsi e a diventare poco simpatici e decisamente maldisposti ogni volta che mi capitava di nominare la Svezia. Per fortuna, col passare dei mesi, la mia ossessione si è affievolita, la passione folle ha lentamente lasciato il posto a una forma di piacere più delicata e meno irritante e monotona per le orecchie altrui. Continuo ad amare Wind and Walls, ma non me la infilo trionfante nell’orecchio più di una volta alla settimana e, nel frattempo, sono finalmente riuscita a completare l’ascolto non solo di There’s no Leaving Now, ma dell’intera discografia di Kristian Matsson.
Questo maggio è stata data alle stampe la sua quarta fatica: Dark Bird Is Home, che ha deluso fortemente le aspettative della critica, dimostrandosi, per alcuni, come l’anello più debole dell’intero catalogo di Matsson. Tra inedite chitarre elettriche, cori e una generale maggiore attenzione per la produzione, il songwriting si perde in una sequela di piccoli dettagli che mostra il tentativo di diversificare – almeno in apparenza – il mood generale del disco, fossilizzato sui canoni acustici delle prove precedenti ma al contempo arricchito da arrangiamenti più consistenti e “rockeggianti”. Appare evidente, inoltre, l’urgenza di adattarsi ai gusti del “grande pubblico”: la malinconia e l’appagante, esorcizzante, richiamo al senso di vuoto e solitudine hanno lasciato il posto a una matrice più indie e pop. Questo non significa che non siano presenti almeno una manciata di canzoni incredibilmente forti e intense, tanto musicalmente quanto per quanto riguarda il testo.
Ad esempio, la decima e
ultima traccia, quella che dà il nome all’album, recita:
Valley
was the future sea
And
now sail’s the plan
And
in this travel with no journey
I
lose 'til I'm light
Letting
go of mind to have
What I'm keeping now
Chitarra acustica e la
bella voce graffiante e nasale di Matsson, Dark
Bird is Home descrive gli ultimi, strazianti,
momenti di vita di un moribondo, mentre cerca di confortare la sua
amante dicendole che andrà verso la luce, che quando il suo viaggio volgerà
al termine sarà finalmente a casa. La vita è stata una tempesta
ringhiante, alla quale è stato meno duro resistere con qualcuno da
tenere stretto e portare con sé, perché la solitudine è una valle
vuota, un deserto senza luce e senza promesse di rinascita.
Sofia Torre
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