Valore legale, morale o economico della laurea?

Intere giornate sui libri, che fuori ci siano -5° o 45°, sacrifici, anni di tasse pagati a fronte di molti disservizi e pochi servizi; molti amici emigrati in cerca di “laurefici” o della miglior preparazione possibile, disposti a pagare qualsiasi prezzo, come se la cultura fosse una qualsiasi merce di scambio, alla stregua di qualsiasi altro bene di consumo, gestibile ad opera di presidi macellai: “fanno 15.000 euro l’anno, più master omaggio, lascio?”.
Di contro, molti altri studenti “bloccati” nella regione e città di origine, in grado di scegliere solo se comprare il libro originale o in fotocopia, disposti ad accettare i più disparati lavori pur di mantenersi gli studi, la cui costante è una paga inversamente proporzionale all’impegno richiesto, di solito corrisposta in ritardo.
Gente che ha un ventaglio di possibilità e solo l’incombenza di scegliere, e gente che deve lottare ogni giorno per garantirsi la possibilità di scegliere, forse, un giorno.
Alla fine però, si è tutti studenti, e che si provenga dalla più prestigiosa delle Università private, o dall’Università più disastrata d’Italia, la fine del percorso sarà una: la laurea.
E questo, al di là della problematica del voto o degli anni impiegati, sembra il lieto fine di una fiaba, un barlume di uguaglianza, la speranza che sia stato superato quell’immobilismo verghiano che condanna l’uomo alla pietrificazione della propria condizione, nel proprio ambiente d’origine, senza lasciare spazio all’evoluzione e alla crescita.
Certo, però, guardando invece al di là del titolo, prendendo in considerazione i fattori prima esclusi, appare chiaro come, invece, il lieto fine poi è solo un’illusione.


Ricerca incessante e costantemente disattesa di “meritocrazia”. Una parola abusata, violentata ad opera di politici stupratori, e di riforme travestite da idee grandiose e soluzioni brillanti per un sistema corrotto e malato, che marcisce ogni giorno di più, soffocato da rimedi palliativi e maschere da indossare a seconda del momento, a scelta dei “potenti”.
Se ci chiediamo allora che lettura dare al nostro finale intitolato “laurea”, sarà necessario fare i conti con l’ultima diatriba italiana sull’abolizione del valore legale della laurea. Si tratterebbe, insomma, di rendere più “riconoscibile” la qualità dei titoli di studio e, dunque, di aumentarne il “valore reale”, o meglio ritenuto tale ad opera delle statistiche e dei parametri di riferimento, stabilendo caso per caso quanto vale il titolo acquisito attribuendogli un determinato punteggio.
Un dibattito che si protrae già da diversi anni e che sembrava aver trovato approdo nell’emendamento al disegno di legge della Pubblica amministrazione, approvato giovedì, e già entrato in crisi, a distanza di una sola settimana, che richiama, ai fini dell’accesso ai pubblici concorsi, non solo il «superamento del mero voto minimo di laurea quale requisito per l’accesso», ma anche la «possibilità di valutarlo in rapporto ai fattori inerenti all’istituzione che lo ha assegnato». Un criterio che ha destato molte perplessità, data la sua intrinseca complessità. L’esigenza di operare delle distinzioni sulla base dell’ateneo di provenienza, infatti, se per certi profili (si pensi al valore da attribuire a lauree conseguite in Atenei di “manica larga”, a confronto con quelle in cui notoriamente vige una media più bassa, dovuta alla presenza di docenti più pignoli e a metodi spesso arretrati) potrebbe risultare addirittura “giusta”, si scontra con una serie di interrogativi e questioni irrisolte, quali i parametri da adottare nelle valutazioni degli atenei e con dei rischi applicativi non indifferenti.

Si creerebbe infatti una sorta di “graduatoria” tra le diverse sedi, e non solo ai fini statistici, probabilmente utilizzando quelli tipici dell’Anvur, notoriamente e maggiormente basati sulla valutazione delle attività di ricerca svolte all’interno dell’Università di riferimento, e dunque più sulle sue possibilità finanziarie, che sulla didattica strictu sensu intesa.
Si legittimerebbe perciò una classificazione ed una conseguente discriminazione in ambito lavorativo, sulla base dell’ateneo di provenienza, con una inevitabile condanna per le università meno “competitive” secondo questi standard, prime fra tutte le pubbliche, soprattutto se del Sud e delle isole.

Tali incertezze e possibili conseguenze costituzionalmente dubbie, assieme alla collocazione stessa del tema, preferibilmente da trattare attraverso una vera riforma dell’intero sistema universitario, sono state fonti di forti critiche, che, minando le basi dell’emendamento, ne hanno messo in discussione l’esistenza. Tanto da comportare un dietrofront politico, con disponibilità al ritiro dell’emendamento, anche se non si può escludere un “ritorno di fiamma”, al quale sono tanto avvezzi i nostri politici.
Sembra perciò possibile tirare un sospiro di sollievo, tra un esame e l’altro, in attesa di raggiungere l’agognato epilogo “laurea”, qualsiasi valore essa abbia socialmente o professionalmente, fieri di aver concluso un percorso, soprattutto se ad ostacoli, a prescindere che esso sia etichettato come di serie A o B. Perché oltre i dati che è possibile indicizzare, ci sono capacità, passione e scelte che non possono essere “misurate”, né ancorate ad incoerenti parametri di matrice prettamente economica.
Solo allora, quando sarà garantita a tutti la possibilità di coltivarle a parità di condizioni, senza subire continue discriminazioni travestite da rimedi, si potrà chiamare davvero in causa la meritocrazia.


Silvia Zuppelli

Articolo originariamente apparso su Utòpia Blog

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