Finalmente,
dopo mesi di attesa e qualche settimana di ritardo, venerdì 17
luglio è uscito Currents,
il terzo album in studio dei Tame Impala.
Con
i due precedenti lavori, Innerspeaker
e Lonerism,
Kevin Parker
– autore, produttore, arrangiatore e vera mente dietro al progetto
– ci aveva abituato a un panorama musicale che, pur saccheggiando
massicciamente gli stilemi del rock psichedelico di stampo
Beatlesiano e 70’s, riusciva comunque a risultare molto più di un
semplice esercizio di revivalismo. Il ventinovenne di Fremantle,
Western Australia, è riuscito a sobbollire le sue influenze un po’
vintage
in un manicaretto estremamente personale, con uno stile compositivo
inconfondibile e tutto sommato efficacemente moderno, che ha
consacrato i Tame Impala come la punta
di diamante dello psych-rock contemporaneo.
A livello espressivo poi, come si può intuire già dai titoli, i
precedenti lavori aprivano una finestrella sull’universo privato di
un Parker che usava la musica per ritirarsi dal mondo; ma per una
migliore trattazione dell’argomento vi rimando alla bella
recensione della mia collega Sofia Torre.
Quello
che colpisce di Currents,
invece, è la sua volontà di cesura
con il passato. Tutto
cambia nel nuovo disco, a partire dal sottinteso del titolo: se gli
altri due erano ombelicalmente ripiegati su se stessi, l’ultimo già
dal nome parla di abbandono al mondo, dello staccarsi finalmente
dallo scoglio del sé per galleggiare sulle correnti dello spazio e
del tempo, di un’apertura eraclitea al movimento al quale non ci si
può in fondo opporre, se non per breve tempo e con scarsi risultati.
Anche
il suono che esce dall’home
studio della band
vicino a Perth cambia radicalmente. Una massiccia e steroidea
iniezione di
sintetizzatori prende
il posto degli strati di chitarre e dei fuzz grandi come elefanti
che nei primi due dischi costituivano la struttura armonica delle
canzoni – basti pensare che, in Currents,
la chitarra compare non più di tre o quattro volte, e solo per brevi
camei. Anche il basso, che soprattutto nel celebratissimo Lonerism
svolge un ruolo molto melodico e si addobba quasi sempre di un fuzz
armonico dal timbro inconfondibile, nel lavoro appena uscito ritorna
ubbidiente al ruolo prettamente ritmico in cui il rock spesso lo
relega, svestendo le distorsioni e martellando percussivo per
costituire l’ossatura delle canzoni. Persino la batteria, pur
sembrando sempre “analogica”, spesso adotta delle sonorità più
pompate, elettroniche. La voce, infine, anche se indulgendo sempre
nel falsetto che tanto bene riesce a Parker, si libera dei mille
effetti che ne confondevano il corpo nei primi album, e spesso
risuona apparentemente inalterata, più nuda, come se volesse
mostrarsi a tutti per com’è.
Ed
effettivamente questo disco è molto intimo. Molti l’hanno definito
un “album di
separazione”, nel
senso che tutte le canzoni trattano in maniera più o meno evidente
della fine di una relazione. È difficile non vederci un riverbero
della recente rottura tra Parker e Melody Prochet dei francesi
Melody’s Echo
Chamber, ma come lo
stesso autore ha specificato, il tema della separazione non è che
una delle forze che guidano Currents.
Kevin Parker |
Come
si è già detto un’altra fonte d’ispirazione, probabilmente la
principale, è la riflessione sul cambiamento. Emblematica, da questo
punto di vista, è la scelta di mettere al primo posto della
tracklist il singolo Let
it Happen, forse il
passo più lungo compiuto dalla gamba dei Tame Impala in questo
album. Let it Happen
è la splendida mela che cade lontano dall’albero, il pezzo che più
di tutti si differenzia dalla produzione precedente, eppure resta
inconfondibilmente dentro a quella cifra stilistica – e non solo, è
anche tra i meglio riusciti di tutto il disco. È la canzone che dà
il via al viaggio
sciamanico di Kevin Parker dentro se stesso,
viaggio che sarà composto da diverse fasi e che alla fine vedrà
riemergere un Parker diverso da quello che era partito, eppure
sostanzialmente ancora la stessa persona. In un certo senso il pezzo
è un riassunto del percorso che, per intero, viene raccontato
attraverso l’album, i cui diversi momenti sono ben identificabili
nella canzone: dopo la prima strofa, l’effetto “subacqueo” a
0:50 sembra voler dire che in quel punto inizia l’immersione del
protagonista nel proprio profondo; il loop nel quale a un certo punto
entra il sintetizzatore potrebbe essere un momento di difficoltà o
di stallo sul sentiero del cambiamento; l’outro, infine, con il
ritorno (caso quasi unico nel disco) della chitarra distorta che si
unisce all’elettronica per formare la melodia, può rappresentare
la riconciliazione con la vecchia identità (la chitarra) all’interno
di una nuova consapevolezza (il sintetizzatore comunque ben
presente).
Al
secondo posto c’è Nangs,
che nello slang di Perth indica i palloncini riempiti di gas
esilarante usato come droga ricreativa da alcuni circoli post-hippie
(e non solo) in Australia, Usa e Uk. Un minuto e cinquanta secondi di
interludio trippy, in cui la voce ripete ossessivamente una sola
cosa, “But there is
something more than that”:
non riesco a non pensare al momento iniziale del viaggio sintetizzato
nella canzone precedente, quando Parker l’artista si ritrova
intrappolato in un genere (lo psych-rock, che potrebbe essere
rappresentato dalla droga di cui sono pieni i nangs)
e si chiede se non c’è nient’altro a cui può aspirare, assetato
di una svolta creativa. Svolta che arriverà proprio con Currents.
Dalla
track 3 alla 8 tutte le canzoni parlano, con toni più o meno
disperati, della fine
di un rapporto. The
Moment, Yes
I’m Changing – un
manifesto d’intenti già dal titolo – , Eventually
(per ammissione dello stesso compositore il
vero cuore emotivo del disco, un singolone strappalacrime
estremamente intenso), Gossip
e The Less I Know, the
Better raccontano di
una persona alle prese con l’abbandono da parte dell’altro e con
il cambiamento in se stessa. Improvvisamente però, a partire dalla
numero 8 Past Life,
la prospettiva si rovescia: la voce narrante, qui pesantemente
effettata, incontra dopo anni di distanza una vecchia fiamma mai
dimenticata.
La relazione, mentre prima è raccontata nel momento in
cui viene troncata, in questa canzone è vista da un punto molto più
in là sulla linea del tempo rispetto alla rottura effettiva. Allo
stesso modo, nella successiva Disciples,
non è il protagonista che cambia, ma l’altra metà della coppia
(And I had no idea/what
that feeling could do to you/And I could tell you changed/By the
people around you),
mentre nella splendida ’Cause
I’m a Man il
falsetto di Parker non è la vittima, la parte che subisce la crisi
della storia, ma quella che si scusa per il dolore causato dalle
proprie azioni, determinate da una forma mentis fondamentalmente
maschile: “Non posso accettare la sconfitta e lasciar correre/Non
ho voce se non penso con la mia testa/La mia debolezza è la fonte di
tutto il mio orgoglio”. Ma alla fine si riconosce anche un fondo
comune a tutta l’umanità, al di là delle differenze di genere:
“Ma sono un essere umano, donna/E rispondo a una forza più
grande”.
Per
finire, il disco si chiude con New
Person, Same Old Mistakes,
forse la canzone più densa di tutto l’album. La struttura si
svolge intorno a un solo riff di basso, ripreso dalla voce, che resta
sempre sullo sfondo, ipnotico, per tutta la durata del pezzo.
Scompare solo nel ponte, nel quale lo scintillante arpeggio di
sintetizzatore sprizza psichedelia ad ogni nota. In più, come lo
stesso autore fa notare nel corso di un’intervista,
in questa traccia il testo si unisce al metatesto, mettendo le mani
avanti a proteggersi dalle critiche degli zeloti dello psych-rock che
gli avrebbero rimproverato di essersi “venduto” – al mercato,
all’elettronica o a chissà che altro: I
can just hear them now/”How could you let us down”,
ma anche I know that
you think it’s fake/Maybe fake’s what I like.
Con
New Person, Same Old
Mistakes si chiude una
parabola artistica che ricorda per certi versi un romanzo
di formazione ottocentesco:
Currents
è I dolori del giovane
Werther per i Tame
Impala, una storia di stallo, necessità che diventa urgenza,
decisioni drastiche e rischi da correre, grosse scommesse con il
futuro, percorsi di purificazione tra le fiamme e infine rinascita
come fenice, uguale eppure diversa, più forte, più bella. I fan di
Tolkien ci ritroveranno echi del passaggio di Gandalf da grigio a
bianco (a me è venuto spontaneo pensarci). Sta di fatto che questa è
una strada che tutti dobbiamo percorrere, prima o poi; per chi non ce
la fa la pena è l’immobilismo, e alla fine la morte.
Giovanni Ruggeri
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