All'indomani dell'accordo
all'interno dell'Eurogruppo sulla crisi Greca, sembrava che, in mezzo
ad un cumulo di macerie, emergesse un unico vincitore: la Germania di
Angela Merkel. Mentre il governo greco era costretto ad ingoiare
bocconi amari per mantenere finanziariamente in vita (chissà per
quanto) il proprio paese e l'Unione Europea scongiurava in extremis
la fuoriuscita senza precedenti di uno stato membro dalla moneta
unica, vedendosi però chiaramente sminuita nella sua natura
sovranazionale durante le trattative, Berlino aveva ottenuto tutto
ciò che voleva. La cancelliera Merkel infatti era riuscita a piegare
la fiera resistenza di Alexis Tsipras, lanciando così un monito a
chiunque in futuro abbia velleità di sovvertire la politica
economica vigente nella zona Euro e, contemporaneamente, a ridurre a
miti consigli i falchi, tedeschi e non solo, che desideravano
liberarsi del fastidioso fardello ellenico. Insomma un capolavoro
diplomatico in cui la Germania formalizzava in maniera muscolare, ma
anche multilaterale, la propria egemonia nel vecchio continente e
salvava la reputazione e la credibilità del progetto d'integrazione
europea.
La cancelliera Angela Merkel e il ministro delle finanze Wolfgang Schauble | Fonte: The Guardian |
Tuttavia questa vicenda
pone, forse definitivamente, la politica estera teutonica davanti al
dilemma culturale della leadership. Infatti, a dispetto di risorse
economiche preponderanti rispetto agli altri stati membri della UE,
la Germania continua a non voler percepirsi, e di conseguenza,
comportarsi in maniera coerente come forza trainante, celandosi
prudentemente dietro alle opache istituzioni di Bruxelles e al tanto
storicamente rilevante quanto attualmente squilibrato asse con la
Francia.
Le radici del problema vanno
ovviamente rintracciate nella scia di morte e terrore causata dai
tentativi tedeschi di dominare il continente nel secolo scorso,
seguendo una presunta idea di eccezionalità, riassunta nel concetto
di Sonderweg. Dalla fine
della seconda guerra mondiale l'élite politica della Germania Ovest
ha plasmato una nuovo ruolo del proprio paese all'interno dello
scenario politico globale improntato al pacifismo, al rispetto delle
norme e del diritto internazionale, al multilateralismo,
all'integrazione con gli altri paesi europei e alla lealtà nei
confronti degli USA. Quando il muro di Berlino è caduto c'erano
grandi timori, soprattuto da parte di Francia e Gran Bretagna,
riguardo ad un possibile risorgere delle ambizioni tedesche di
egemonia nel continente, corroborate da interpretazioni realiste in
ambito accademico. Inizialmente però queste preoccupazioni sono
state fugate dagli accordi di Maastricht e da un più generale
atteggiamento orientato al basso profilo. Progressivamente però
alcuni cardini della politica estera tedesca sono andati via via
indebolendosi, seppur con ragioni validissime. Dapprima la
partecipazione all'operazione NATO in Kosovo ha rotto con il
carattere pacifista in senso stretto per evitare un atto di pulizia
etnica. Successivamente il rifiuto di entrare in coalizione con gli
Stati Uniti di George W. Bush nella scellerata invasione dell'Iraq ha
segnato una discontinuità con la dimensione atlantista. In un certo
senso la patria di Goethe è parzialmente uscita dal suo guscio,
cominciando a far sentire la propria voce e perorando i proprio
interessi nazionali autonomamente.
Questa
normalizzazione della politica estera tedesca è avvenuta in modo
molto meno limpido nel contesto dell'Unione Europea. Qualunque
osservatore minimamente informato aveva notato come già da tempo a
dettare legge nella zona Euro fosse la Germania. Però non si era
ancora verificato un singolo evento che aveva acceso i riflettori
dell'opinione pubblica sugli indiscutibili rapporti di forza interni
alla UE. La trattativa con il governo di sinistra radicale in carica
ad Atene, soprattutto nelle sue fasi conclusive, ha, come già
sottolineato in precedenza, svelato la presenza di un paese
politicamente ed economicamente egemone in Europa che, parafrasando il
George Orwell de la Fattoria degli Animali, “è
più uguale degli altri”. Gli altri appunto non possono fare altro
che adeguarsi volenti (e noi in Italia tendiamo a
scordarcelo ma sono la maggior parte) o nolenti.
Ora che
le carte sono state scoperte la Germania deve per forza guardarsi
allo specchio e fare i conti con sé stessa: il proprio passato, le
proprie ansie e le proprie angosce. Da una parte rimanere a giocare
all'oscuro burattinaio da dietro le quinte è impossibile oltre che
controproducente. Dall'altra impugnare le redini dell'Euro e
dell'Unione Europea richiede una netta ridefinizione dell'identità
nazionale oltre ad una totale dedizione alla causa. Ma è anche
l'unica opzione percorribile.
Fonte: Il Sole24Ore |
Berlino
ha tutte le qualità per essere un perfetto leader post-moderno. Non
esiste nessun altro stato membro così convinto dell'immanenza e
irreversibilità del processo d'integrazione europea e
dell'importanza di trasferire sovranità politica a favore delle
istituzioni comunitarie. Non esiste nessun paese che crede di più
nel multilateralismo e nel consenso per raggiungere le decisioni
collettive e che possiede una così fruttuosa esperienza nel
cosiddetto coalition-building. Pochi altri sono così attenti e scrupolosi per quanto riguarda il rispetto dei
diritti umani e delle norme della comunità internazionale. Infine,
che piaccia o no, il modello economico tedesco si è rivelato, pur
con alcuni immancabili difetti, il più efficace tra quelli
continentali per affrontare le sfide della competizione globale.
Vanno
però evidenziati un paio di aspetti su cui la Germania dovrebbe
correggere il tiro. È fondamentale che le autorità tedesche,
Bundesbank in primis, abbandonino i loro dogmi: pareggio di bilancio
nel breve periodo e prudenza nell'attuare una politica monetaria
espansiva. Queste due paranoie, nate in seguito alla devastante
super-inflazione durante la repubblica di Weimar, hanno esacerbato la
recessione nella zona Euro. Dovrebbero anche, in ossequio con un
ruolo di egemone conclamato, tenere in considerazione un elettorato
più ampio di quello che risiede nei propri confini poiché le loro
scelte hanno un impatto chiaramente transnazionale.
Può
darsi infine che in questo momento sussista un problema di classe dirigente.
Angela Merkel, per limiti personali e anagrafici, temo non possa
operare una tale trasformazione dell'identità e, quindi, della
politica estera tedesca. Tuttavia qualcuno presto lo dovrà fare.
Poiché, affinché l'Unione Europea faccia un significativo salto di
qualità, oltrepassando lo stallo di questo ultimo decennio, c'è
un disperato bisogno di una leadership solida, affidabile e
lungimirante. C'è bisogno della Germania. Una nuova Germania.
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