“Quale tra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie
comunali, che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con
le scuole di infanzia paritarie a gestione privata, ritieni più idonea per
assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano
di accedere alla scuola di’infanzia?
A) Utilizzarle per le scuole comunali e statali.
B)Utilizzarle per le scuole paritarie private.”
A) Utilizzarle per le scuole comunali e statali.
B)Utilizzarle per le scuole paritarie private.”
Ecco il quesito cui i cittadini
bolognesi sono chiamati a rispondere nella giornata di domenica 26 maggio. Tramite referendum consultivo (quindi non
vincolante), il capoluogo emiliano deciderà del futuro dei finanziamenti agli
asili privati, detti “scuole d’infanzia paritarie private”. Una questione
apparentemente locale che ben presto si è tradotta in un dibattito più ampio, poiché
l’alternativa che il referendum presenta riguarda indirettamente anche le leggi
e i sistemi di gestione delle scuole a livello nazionale. Altrettanto
celermente, essa ha dato forma a un confronto
politico-ideologico che, oltre ad allontanare la discussione dal tema
“qualità dell’offerta scolastica”, ha mostrato nuove ed inconciliabili linee di
divisione all’interno dello schieramento di sinistra.
Ma come si è arrivati al referendum?
Per capirlo occorre fare un
passo indietro e scoprire peculiarità e
fasi di sviluppo della scuola dell’infanzia bolognese. Quest’ultima ha
origini molto lontane; già a partire dal XIX secolo nascono infatti le prime
istituzioni educative per l’infanzia, in parte gestite dal comune, in parte da
associazioni ed enti privati, alle quali solo nel 1978 si aggiunge un asilo a
carattere statale. Negli anni ’90 comincia poi a delinearsi un sistema misto di
scuole infantili (tuttora esistente), che vedrà l’amministrazione bolognese
investire ingenti risorse per il mantenimento degli istituti scolastici
comunali, supplendo così a una grave carenza dello stato centrale. Il punto di
svolta si raggiunge però nel 1994,
anno in cui il sindaco PDS Walter Vitali decide a favore di un sistema integrato fra scuole pubbliche e
paritarie private, sulla base del quale queste ultime avrebbero ricevuto parte
dei fondi statali e comunali. Il medesimo provvedimento viene poi adottato dall’Emilia-Romagna
con la legge 52 del 1995 dall’allora Presidente Regionale Pier Luigi Bersani.
Fu ancora il centro sinistra ad estendere questo sistema a tutto il paese con
un decreto legge del 1999 a firma Luigi Berlinguer, successivamente convertito
in legge dal governo D’Alema.
Fin dalla sua entrata in vigore a
livello locale il sistema fu fortemente
criticato da chi difendeva la priorità della scuola pubblica, com’è
dimostrato dai numerosi ricorsi legali che ne chiedevano l’eliminazione. L’ultimo
tentativo in questo senso è quello del Nuovo Comitato Art. 33, promotore del
referendum di domenica. L’oggetto d’interesse odierno è una cifra che si aggira
attorno al milione di euro all’anno, della quale occorre stabilire la
destinazione: farla confluire nelle casse
della scuola pubblica modificando l’attuale modello, o destinarla alle scuole
private mantenendo intatto l’assetto vigente?
Chi sostiene l’opzione A, ovvero
l’utilizzo del milione esclusivamente per le strutture comunali e statali, fa
riferimento all’articolo 33 della Costituzione, nella parte in cui recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire
scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Di questo
parere sono, oltre al Comitato promotore di cui Stefano Rodotà è presidente
onorario, SEL, IdV, Movimento 5 Stelle, Verdi, Rifondazione Comunista, diverse
organizzazioni sindacali come la Fiom, parte della Cgil e i sindacati di base,
nonché personalità pubbliche del calibro di Gino Strada, Margherita Hack e
Dario Fo, solo per citarne alcuni. Le motivazioni di tale scelta sono dettate sia
dalla consapevolezza che i tagli
all’Istruzione portati dalla crisi hanno toccato esclusivamente gli stanziamenti
alle scuole pubbliche, sia dal carattere
cattolico della quasi totalità degli asili privati (26 dei 27 esistenti)
che li renderebbe adatti solo ai figli di genitori con un certo reddito e di una
certa religione. A ciò si aggiunge un dato importante, quello dei bambini
iscritti alle scuole private prima e dopo il 1995 (anno in cui è entrato in
vigore il sistema integrato di finanziamento); rispettivamente 1.760 e 1.736. Per
i promotori del referendum questo dimostra che non è il minor costo delle rette a condizionare la scelta di un
genitore di mandare o meno il proprio figlio a un asilo privato; di
conseguenza è improbabile che togliendo quel milione di euro alle private si
ingrosserebbero notevolmente le liste d’attesa per le scuole pubbliche.
Dall’altra parte, il comitato “B
come Bologna. B come Bambini”
ritiene che il referendum vada a minare, in nome di una lotta solo ideologica, un sistema scolastico ben funzionante e
caratterizzato da alti standard dell’offerta educativa. A sostegno della
propria tesi, i pro-B affermano che il Comune di Bologna investe ogni anno 1.055.500
euro in favore delle scuole d’infanzia private, garantendo così 1.736 posti
all’interno delle stesse; con la medesima cifra verrebbero assicurati circa 145
posti nelle scuole comunali, poiché il costo che il Comune sostiene per ogni
bambino di suddette scuole è di 6.900 euro, contro i 600 circa delle scuole
paritarie private. Si sono dichiarati favorevoli a questa opzione il PD, col
sindaco Merola e la sua giunta in prima linea, il PDL, la Lega Nord, l’UdC,
alcuni sindacati come la CISL, e il presidente della Conferenza Episcopale
Italiana Angelo Bagnasco.
Il dibattito sul referendum è
ancora acceso e forse nemmeno il voto di domenica servirà a placarlo. A
prescindere da ciò che emergerà dalle urne e dalle riflessioni che se ne
trarranno, pare significativo riportare la visione del segretario della Cgil
Bologna Danilo Gruppi, il quale afferma: “La vera controparte è lo stato. Ma di
fronte alle poche sezioni statali presenti sotto le Due torri, la città, invece
di indignarsi, mette in scena questo teatrino”.
Mascia Mazzanti
@masciamazzanti
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