Quanto è accaduto davanti a palazzo Chigi mentre il nuovo governo prestava i giuramenti di rito ha scosso profondamente l’opinione pubblica; non soltanto il gesto in sé, ma anche il delicato momento scelto per realizzarlo. Manifestazioni di cordoglio e affetto sono arrivate un po’ da tutte le parti: rappresentanti delle istituzioni, membri dell’Arma e comuni cittadini hanno mostrato la propria vicinanza alle famiglie dei carabinieri feriti, com’è normale attendersi in queste occasioni. Con la stessa premura, i media hanno tentato di capire quali motivazioni avessero spinto un tizio qualunque a compiere un atto così estremo. Una ricerca doverosa si dirà, non ne discuto; così come importanti sono le considerazioni che ne conseguono, specialmente se riferite alle drammatiche ripercussioni sociali che l’attuale crisi economica non cessa di evidenziare.
Nondimeno, fra le riflessioni
maturate ci si è dimenticati di un tema già troppe volte oscurato, anche a
causa dell’invadente spettacolarizzazione promossa dai mezzi di informazione. Mi
riferisco alle condizioni di lavoro e
organizzazione delle forze dell’ordine, in particolare agli anacronismi e
ai problemi strutturali di cui questo settore è affetto. Potrà apparire una
forzatura prendere a pretesto occasioni tanto infelici per aprire un dibattito
nel merito. Magari è cosi. Tuttavia, piuttosto che ribadire con sterili elogi
l’importanza degli agenti e della funzione che svolgono, piuttosto che
immolarli a martiri della patria ricordando quanto sproporzionato sia il loro
impegno a confronto della paga che ricevono, probabilmente risulterebbe più
costruttivo affrontare con determinazione un dibattito relativo alle carenze endemiche di questa (fondamentale)
componente della Pubblica Amministrazione.
L’argomento rimane spesso marginale nell’agenda politica, e non è considerato più significativo a
livello di pubblico dibattito. Tale disinteresse generale è forse determinato
da una concezione molto ristretta ed esclusiva del settore che fa percepire le questioni
ad esso riferite come eccessivamente particolaristiche, quindi lontane da
quanto è da ritenersi di comune rilevanza. Inoltre, non si può negare che la
categoria non sia fra le più popolari in termini di simpatia e gradimento. Il
punto è, per quale motivo? Perché
questa emarginazione e come mai una tale diffidenza? E’ necessario indagare le
cause di questo atteggiamento culturale anche per comprendere che difficilmente
la delegittimazione delle forze di sicurezza è determinata da una scelta
unidirezionale della cittadinanza; per accorgersi che il malfunzionamento della
“macchina dell’ordine pubblico” ha contribuito a sua volta al diffondersi di un
tale clima d’opinione.
Si rifletta ad esempio sulle modalità di selezione del personale; i
test sulla base dei quali i candidati vengono scelti sono volti a valutarne le
specifiche competenze, ma spesso risultano inadeguati per comprenderne appieno il
lato psicologico. Questo problema non è di secondaria importanza se si
considera la delicatezza del lavoro di polizia, finalizzato a promuovere la
sicurezza e a prevenire la violenza. Qualsiasi aspetto comportamentale che
risulti incompatibile con tali obiettivi può comprometterne il raggiungimento,
quindi screditare la figura degli agenti agli occhi di chi dovrebbe godere
della loro tutela. E che dire degli
organi dirigenti? Spesso la base è il riflesso di ciò che sta al vertice,
perciò le figure con maggiori poteri decisionali andrebbero selezionate con
particolare accuratezza e secondo criteri puramente meritocratici; purtroppo
però, le promozioni di carriera sono dominate da quelle logiche clientelari che
infettano anche molti altri settori del pubblico impiego, contribuendo a peggiorane
il funzionamento e i risultati. Ancora, a livello organizzativo, pesa il carente coordinamento fra le diverse
componenti delle forze dell’ordine che non di rado si traduce in
sovrapposizione di competenze, confusione, delegittimazione.
Quanto espresso finora non è che
un’opinione maturata nel confronto con chi nel settore dell’ordine pubblico
lavora da tanti anni. E perché no, potrebbe essere un atteggiamento nuovo per affrontare vecchie questioni, un tentativo
per sviluppare riflessioni costruttive e dare risposte vincenti a problemi da
sempre irrisolti.
Mascia Mazzanti
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