SundayUp: Boyhood (2014) e gli Oscar

So what’s the point?
Of what?
I don’t know, any of this. Everything.
Everything? What’s the point? I mean, I sure as shit don’t know.


Ci siamo. Il tanto atteso 22 febbraio è arrivato, e noi con lui. Mi raccomando di puntarvi la sveglia perché l’orario potrebbe certo non essere dei più comodi, si rischia di crollare addormentati molto prima. Per di più oggi è domenica e il tasso di sonnolenza aumenta, si sa. Ricapitolando: alle 2.30 tutti davanti allo schermo, pop corn e camomilla alla mano.
Ma come “perché”? Ragazzi non siete sul pezzo. C’è La Notte degli Oscar, sveglia.

A questo proposito vorrei dedicare questo articolo un po’ unconventional rispetto al mio standard a tutte quelle persone che nei giorni scorsi mi hanno chiesto cose del tipo: “Ma Boyhood è quello del ragazzino sdraiato sull’erba?”, “Oh ma tu cosa ne pensi degli Oscar?”, “Secondo te chi vince?”, “Ma Selma è quello della tipa con l’Alzheimer?”. 
Quel che posso dire per il momento è che purtroppo non ho ancora le grandi capacità del polpo Paul, quindi non posso predire nessun risultato. L’altra brutta notizia è che non posso nemmeno curare l’ignoranza generalizzata che vige in relazione alla quinta arte, ma ci sto lavorando. Quindi eccomi qui, pronta a regalarvi quindi qualche delucidazione in merito a questi Oscar.


Per la statuetta d’oro come Miglior Film concorrono otto lungometraggi, la metà dei quali sono opere di registi candidati anche per la Migliore Regia: Boyhood di Linklater, Birdman di Inarritu, Grand Budapest Hotel di Wed Anderson e Morten Tyldum con The Imitation Game. Ovviamente ve ne sono altri che non ho citato, ma poiché potete tranquillamente trovare tutte le altre candidature su Wikipedia, non starò qui a tediarvi con elenchi infiniti. L’assegnazione di un premio dovrebbe trascendere il gusto personale, direi che su questo siamo d’accordo tutti. Dovrebbe trattarsi di una scelta basata su criteri ben specifici ed oggettivi, a dimostrarlo per contrasto vi è l’orgia di commenti entusiasti che spopolano sui social (in particolare su Twitter) dedicati a Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, ritenuto un capolavoro. Ma su che basi? Stiamo chiaramente parlando di un grandissimo artista, che ha dato vita ad uno stile unico e dai tratti immediatamente riconoscibili. Eppure non mi sento di dire che con questo film abbia aggiunto qualcosa di più al tracciato cinematografico che sta segnando da anni, oltre ad essere divenuto, a tratti, la caricatura di se stesso. Talvolta la grandezza di un autore sta proprio nel cimentarsi in generi che non gli appartengono, rischiare, sperimentare; e, diciamoci la verità, Anderson avrà sicuramente rotto gli schemi all’inizio della sua carriera, ma poi si è dimenticato come si fa. Lo stesso discorso si potrebbe fare per Clint Eastwood, che grazie al cielo non è stato candidato per la Miglior Regia. Di contro, questa è stata proprio l’operazione compiuta dal temerario Inarritu, che ha abbandonato il suo noto registro drammatico per dedicarsi a un’opera che sì, fa anche ridere. Ed oggi ridere al cinema - mi rivolgo a chi non si sganascia con le battute di Checco Zalone - non è scontato.


Poi c’è Boyhood. Che non va guardato perché “è candidato all’Oscar”, ma perché ha segnato una nuova tappa nella storia del cinema. Si tratta di un film che scavalca tutte le convenzioni attualmente conosciute: girato in 11 anniper pochi giorni all’anno (45 complessivamente), con attori che si sono letteramente messi nelle mani di Linklater. Questo perché non avevano un contratto, dal momento in cui in America per legge non si possono firmare contratti cinematografici superiori ai 7 anni. Boyhood è un esperimento unico di racconto di vita durante la vita vera: i protagonisti sono cresciuti con il film, i loro cambiamenti lo hanno plasmato, trasformato e condotto a divenire il prodotto finale che è oggi. Una saga familiare americana che ruota attorno alla figura del protagonista, Mason Jr., interpretato dall’attore Ellar Coltrane. E proprio in virtù della sua natura di saga familiare mi sento di azzardare che forse Linklater avrebbe potuto strutturarlo in due parti, realizzando un progetto simile a La meglio gioventù. Addirittura il progetto avrebbe previsto inizialmente una durata totale di 120’, suddivisi in 10’ di riprese per anno. Boyhood è stato prima di tutto un’idea folle, quell’opera unica per un autore, che costruisce piano piano nel corso della propria vita mentre si dedica ad altro. E Linklater di idee folli ne ha avute tante durante la sua carriera, per capirci meglio vi consiglio la visione di Waking Life (2001) e A Scanner Darkly (2006). Da non dimenticare che, per aggiungere altra carne al fuoco, questo lavoro è una riflessione sulla trilogia dei “Before” (Before SunriseBefore SunsetBefore Midnight) dove costante è la figura di Ethan Hawke, ormai attore feticcio del regista. Boyhood è un film lento, pieno di vuoti e momenti apparentemente inutili, è il resoconto dello spoglio di un diario scritto durante la crescita di un individuo, dove a costituire un elemento di svolta spesso non è l’evento determinante. Non imita la vita, ma la evoca, attraverso silenzi e canzoni che segnano periodi della storia di Mason Jr., ma soprattutto periodi della storia del popolo americano. Non ha la presunzione di dare una risposta, d’altronde solo gli scemi, gli stronzi e i profeti la trovano, nella vita.

Ed io non ho una risposta da dare alla domanda “Secondo te chi vince?”, ma una speranza sì.



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