So
what’s the point?
Of
what?
I
don’t know, any of this. Everything.
Everything?
What’s the point? I mean, I sure as shit don’t know.
Ci
siamo. Il tanto atteso 22 febbraio è arrivato, e noi con lui. Mi
raccomando di puntarvi la sveglia perché l’orario potrebbe certo
non essere dei più comodi, si rischia di crollare addormentati molto
prima. Per di più oggi è domenica e il tasso di sonnolenza aumenta,
si sa. Ricapitolando: alle 2.30 tutti davanti allo schermo,
pop corn e camomilla alla mano.
Ma
come “perché”? Ragazzi non siete sul pezzo. C’è La Notte
degli Oscar, sveglia.
A
questo proposito vorrei dedicare questo articolo un
po’ unconventional rispetto
al mio standard a tutte quelle persone che nei giorni scorsi mi hanno
chiesto cose del tipo: “Ma Boyhood è
quello del ragazzino sdraiato sull’erba?”, “Oh ma tu cosa ne
pensi degli Oscar?”, “Secondo te chi vince?”, “Ma Selma è
quello della tipa con l’Alzheimer?”.
Quel
che posso dire per il momento è che purtroppo non ho ancora le
grandi capacità del polpo Paul, quindi non posso predire nessun
risultato. L’altra brutta notizia è che non posso nemmeno
curare l’ignoranza generalizzata che vige in relazione alla quinta
arte, ma ci sto lavorando. Quindi eccomi qui, pronta a regalarvi
quindi qualche delucidazione in merito a questi Oscar.
Per
la statuetta d’oro come Miglior
Film concorrono
otto lungometraggi, la metà dei quali sono opere di registi
candidati anche per la Migliore Regia: Boyhood di
Linklater, Birdman di
Inarritu, Grand
Budapest Hotel di
Wed Anderson e Morten Tyldum con The
Imitation Game.
Ovviamente ve ne sono altri che non ho citato, ma poiché potete
tranquillamente trovare tutte le altre candidature su Wikipedia, non
starò qui a tediarvi con elenchi infiniti. L’assegnazione
di un premio dovrebbe trascendere il gusto personale,
direi che su questo siamo d’accordo tutti. Dovrebbe trattarsi di
una scelta basata su criteri ben specifici ed oggettivi, a
dimostrarlo per contrasto vi è l’orgia di commenti entusiasti che
spopolano sui social (in particolare su Twitter) dedicati a Grand
Budapest Hotel di Wes
Anderson, ritenuto un capolavoro.
Ma su che basi? Stiamo chiaramente parlando di un grandissimo
artista, che ha dato vita ad uno stile unico e dai tratti
immediatamente riconoscibili. Eppure non mi sento di dire che con
questo film abbia aggiunto qualcosa di più al tracciato
cinematografico che sta segnando da anni, oltre ad essere
divenuto, a tratti, la caricatura di se stesso.
Talvolta la grandezza di un autore sta proprio nel cimentarsi in
generi che non gli appartengono, rischiare, sperimentare; e,
diciamoci la verità, Anderson avrà sicuramente rotto gli schemi
all’inizio della sua carriera, ma poi si è dimenticato come si fa.
Lo stesso discorso si potrebbe fare per Clint
Eastwood, che
grazie al cielo non è stato candidato per la Miglior Regia. Di
contro, questa è stata proprio l’operazione compiuta dal temerario
Inarritu, che ha abbandonato il suo noto registro drammatico per
dedicarsi a un’opera che sì, fa anche ridere. Ed oggi ridere al
cinema - mi rivolgo a chi non si sganascia con le battute di Checco
Zalone - non è scontato.
Poi
c’è Boyhood.
Che non va guardato perché “è candidato all’Oscar”, ma perché
ha segnato una nuova tappa nella storia del cinema. Si tratta di un
film che scavalca tutte le convenzioni attualmente conosciute:
girato in 11
anni, per
pochi giorni all’anno (45
complessivamente), con attori che si sono letteramente messi nelle
mani di Linklater. Questo perché non avevano un contratto, dal
momento in cui in America per legge non si possono firmare contratti
cinematografici superiori ai 7 anni. Boyhood è
un esperimento
unico di racconto di vita durante la vita vera:
i protagonisti sono cresciuti con il film, i loro cambiamenti lo
hanno plasmato, trasformato e condotto a divenire il prodotto finale
che è oggi. Una saga familiare americana che ruota attorno alla
figura del protagonista, Mason Jr., interpretato dall’attore Ellar
Coltrane. E proprio in virtù della sua natura di saga familiare mi
sento di azzardare che forse Linklater avrebbe potuto strutturarlo in
due parti, realizzando un progetto simile a La
meglio gioventù.
Addirittura il progetto avrebbe previsto inizialmente una durata
totale di 120’, suddivisi in 10’ di riprese per anno. Boyhood è
stato prima di tutto un’idea folle,
quell’opera unica per un autore, che costruisce piano piano nel
corso della propria vita mentre si dedica ad altro. E Linklater di
idee folli ne ha avute tante durante la sua carriera, per capirci
meglio vi consiglio la visione di Waking
Life (2001)
e A Scanner
Darkly (2006).
Da non dimenticare che, per aggiungere altra carne al fuoco, questo
lavoro è una riflessione sulla trilogia dei “Before” (Before
Sunrise, Before
Sunset, Before
Midnight) dove
costante è la figura di Ethan
Hawke, ormai attore
feticcio del regista. Boyhood è
un film lento, pieno di vuoti e momenti apparentemente inutili, è il
resoconto dello spoglio di un diario scritto durante la crescita di
un individuo, dove a costituire un elemento di svolta spesso non è
l’evento determinante. Non
imita la vita, ma la evoca,
attraverso silenzi e canzoni che segnano periodi della storia di
Mason Jr., ma soprattutto periodi della storia del popolo americano.
Non ha la presunzione di dare una risposta, d’altronde solo gli
scemi, gli stronzi e i profeti la trovano, nella vita.
Ed
io non ho una risposta da dare alla domanda “Secondo te chi
vince?”, ma una speranza sì.
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