Collegandomi a un SundayUp del
nostro Filippo Batisti, ho pensato a un articolo su
un’attività decisamente più gratificante e – ammettiamolo –
ben più praticata rispetto allo studiare: il non pensare a niente.
In realtà è una condizione non così facile da raggiungere, ma
senza addentrarci in non richieste disamine di varie tecniche di
meditazione, tento di stilare un elenco di brani che possano aiutare
a raggiungere l’agognata meta. Alcune necessarie premesse.
Premessa numero
uno: tratterò solo di musica cosiddetta “classica” del XX e XXI
secolo, per vari motivi. Innanzitutto perché è quella meno
conosciuta, e quindi meno soggetta ai condizionamenti culturali che,
alle prime note di Per Elisa ci fanno affermare “ah, questa
è Per Elisa!”, ed ecco che improvvisamente stiamo già
pensando a qualcosa e abbiamo mancato l’obiettivo. In secondo luogo
(legato al primo) perché, per una certa “difficoltà” di
fruizione, è un tipo di musica che si presta particolarmente a fare
da sfondo a un buon momento di pace con noi stessi. Last but not
least, è musica che vorrei far conoscere, ed è musica che
conosco molto meglio di quella pop o rock o chennesoìo, quindi è
meglio se mi occupo di questa e passo il resto sotto un dignitoso ma
colpevolissimo silenzio.
Premessa numero
due: gli ascoltatori si dividono solitamente in due categorie. Quelli
che per non pensare a nulla richiedono musica talmente complessa da
catalizzare ogni loro energia e attenzione, e quelli che per non
pensare a nulla vogliono una musica “bianca”, qualcosa che faccia
da tappeto senza tuttavia diventare un semplice fondale. Una specie
di luce soffusa che riesca a sfumare tutti i contorni e a limare
tutti gli spigoli, presente ma non invadente. Questo articolo è
rivolto alla seconda categoria.
Maurice Ravel – Boléro
Brano anche troppo famoso, ma utile ai
nostri scopi. Scritto nel 1928, è composto, in breve, da due sole
frasi melodiche (cesellate con cura incredibile, come solo Ravel sa
fare), una più aperta e lineare (in modo maggiore) e una più
tortuosa e oscura (in un modo che ricorda il frigio). Il tutto è
cucito insieme dall’ossessivo ritmo di bolero, ribadito fino
all’esasperazione dal tamburo militare. Le due frasi si rincorrono,
sempre uguali: l’unica cosa che varia è la strumentazione, con
impasti timbrici sempre differenti. Si noterà il progressivo
crescendo che porta il brano da un inizio apollineo e limpido,
fino a un’atmosfera che si fa sempre più sensuale (il saxofono
aiuta, devo dire) per poi portarsi verso il finale che raggiunge
intensità parossistiche, in un’esplosione incontrollabile dalla
potenza devastante. Andrebbe ascoltato possibilmente al buio e ad
occhi chiusi. Possiede una capacità ipnotica notevole, che non vi
farà accorgere della sua durata considerevole (circa 18 minuti in
questa esecuzione, “purtroppo” disturbata dagli applausi).
Arvo Pärt – Cantus in memoriam Benjamin Britten
Scritto nel 1977 per la morte del
grande compositore inglese Britten. Pärt, compositore estone, ha
sviluppato negli anni uno stile tutto suo, una sorta di minimalismo
condito con evidenti riferimenti alla polifonia rinascimentale (anche
nei suoi titoli, di fatto tutti in latino), che rendono le sue
composizioni indubbiamente contemporanee, anche se di sapore
arcaizzante. Questo brano ha una particolarità: si fonda su un unico
principio formale di rigore quasi matematico. Di fatto, costruendo un
adeguato (e semplice) algoritmo, qualsiasi calcolatore sarebbe in
grado di comporre questo brano. Si tratta di un “canone mensurale”,
cioè un particolare tipo di artificio compositivo di origine
rinascimentale, in cui le varie voci eseguono un’identica melodia,
solo a velocità diverse. La perizia compositiva sta nel trovare una
melodia che possa “incastrarsi” in maniera soddisfacente con le
versioni più lente o più veloci di sé. Naturalmente l’effetto
che ne risulta è molto di più che un semplice calcolo matematico.
Il brano è estremamente affascinante, meditativo, tipicamente
funebre (la campana sottolinea questo aspetto con i suoi rintocchi
lugubri): nonostante la semplicità dell’idea di base del brano, il
canone mensurale si dimostra capace di creare sempre nuovi effetti
imprevisti, rendendo una banale melodia discendente sempre nuova,
come fosse un unico oggetto che però guardiamo da angolazioni
diverse a seconda di cosa si trova attorno a lui.
Arvo Pärt |
Charles Ives –
The Unanswered Question
Brano abbozzato nel 1908 e rifinito tra
il ’30 e il ’35. Come si può notare si sviluppa su tre piani:
gli accordi consonanti e rilassati degli archi, che, nelle parole
dell’autore, rappresentano il “silenzio dei druidi”. La tromba
solista espone la “domanda” del titolo, una sequenza atonale
smarrita e poco chiara. Le “risposte” sono affidate a quattro
fiati, e sono sempre più dissonanti e arrabbiate, finché l’ultima
domanda rimane sospesa nel vuoto, senza alcuna risposta se non lo
sconcertante “silenzio dei druidi”. Il pezzo, nelle intenzioni
dell’autore, sarebbe carico di significati filosofici: la frase
atonale della tromba simboleggia “l’eterna domanda
sull’esistenza” posta dall’uomo all’universo, domanda che
però è destinata a rimanere senza risposta, unanswered,
tratteggiando un quadro di straziante solitudine senza possibilità
di salvezza, anche se l’ultimo accordo degli archi, un limpido Sol
maggiore, sembrerebbe lasciare uno spiraglio di speranza nella
desolazione, e per uno strano caso è lo stesso accordo che apre il
prossimo brano.
Ralph Vaughan Williams – Fantasia on a Theme by Thomas Tallis
Questo è uno dei miei pezzi preferiti
in assoluto. Compositore inglese, Vaughan Williams elabora nel 1910
un frammento di un altro compositore inglese, Thomas Tallis, vissuto
quattrocento anni prima. L’organico è particolarissimo, una doppia
orchestra d’archi con un quartetto solista. Non credo esistano
altri pezzi per una compagine simile. Si noti il raffinatissimo gioco
di echi tra le due orchestre, che dialogano in fitti scambi di
materiale semplicissimo: successioni di accordi maggiori o minori,
giustapposti però in sequenze non tradizionali. Si crea così un
continuo spostarsi dei centri tonali, che creano un’atmosfera che
smarrisce chi è abituato alla musica classica in senso stretto, ma
che risulta più familiare ai fruitori di musica ambient, del
progressive rock e anche di una certa produzione del cantautorato,
specie italiano. Straordinario è il trattamento dell’orchestrazione:
con soli archi a disposizione, Vaughan Williams riesce a creare
effetti stupefacenti di varietà timbrica, comprimendo e dilatando
gli accordi e tramite i già citati effetti d’eco. Per fare un
esempio: il primo accordo, in pianissimo, possiede la tipica
scrittura che un compositore “tradizionale” avrebbe utilizzato
per un fortissimo. Il risultato è che sembra di sentire
un’orchestra che suoni fortissimo, ma in un’altra stanza.
Il che, naturalmente, non è uguale a un pianissimo suonato
vicino a noi.
Steve Reich – Nagoya Marimbas
Facciamo un salto in avanti, fino al
1994 con il compositore statunitense Steve Reich. Necessaria
parentesi sul cosiddetto “minimalismo”: come si può intuire i
minimalisti creano musica a partire da cellule brevi e ripetitive,
che vengono variate pochissimo. Questo brano è particolarmente breve
per la produzione di Reich, ma è rappresentativo. Le due marimbe
creano un’atmosfera un po’ caraibica, lo ammetto, ma il tipo
particolare di timbro che hanno (percussivo all’inizio, con un
decadimento abbastanza sostenuto) e il trattamento delle cellule
melodiche, in lenta ma costante evoluzione, rendono questo brano
decisamente ipnotico (consiglio di guardare il video oltre che
di ascoltare la musica). Per chi volesse approfondire questo
compositore potrebbe essere interessante guardarsi il suo sestetto per marimbe oppure uno dei pezzi più estremi, Music for Pieces of Wood,
ma attenzione con questo, può portare a una crisi isterica.
John Luther Adams – Dark Waves
Se credete che una semplice
sovrapposizione di intervalli di quinta non possa portare a nulla di
interessante, buttate un orecchio a questo brano del 2007, di un
compositore statunitense particolarmente misantropo, tanto da
rifugiarsi in una irraggiungibile zona dell’Alaska. Il brano
consiste di alcuni crescendi e diminuendi incrociati,
che raggiungono un climax comune a un certo punto della
composizione, per poi riassorbirsi gradualmente nel silenzio da cui
sono venuti. Si tratta di una scrittura fortemente “naturalistica”,
quasi priva di qualsiasi costruzione musicale occidentale. Gli unici
movimenti sono oscillazioni tra note a distanza di quinta (uno degli
intervalli più naturali), che costituiscono un unico tappeto sonoro
movimentato soltanto da progressive aggiunte di ulteriori quinte e
dalle variazioni dinamiche. Il brano prevede che durante l’esecuzione
venga diffuso in sala un nastro registrato che contiene rumori che
però si fondono quasi completamente con i suoni reali provenienti
dall’orchestra (particolarmente estesa).
Steve Reich |
Gyorgy Ligeti – Lux Æterna
Brano singolare, scritto nel 1966 e
utilizzato da Kubrick in “2001 – Odissea nello spazio”. Il coro
è formato da 16 cantanti, che raramente si uniscono per cantare note
uguali oppure assimilabili in accordi: si tratta per lo più di
clusters (“grappoli” di note, come quelli che si ottengono
ad esempio premendo con il palmo una porzione di tastiera di
pianoforte) in lenta mutazione. L’uso particolarissimo del coro,
con vocali lunghissime e consonanti poco articolate, fa sì che
l’effetto sia decisamente strumentale. La conclusione è
peculiarissima: Ligeti prescrive infatti 7 battute vuote, riempite
cioè di solo silenzio. Un artificio utile a far mantenere al
pubblico la concentrazione anche oltre gli ultimi suoni, che così si
dissolvono nel silenzio non disturbati da applausi (il direttore
continua a battere il tempo anche sul silenzio).
Aram Khachaturian – Adagio dal balletto Gayaneh
Altro brano utilizzato da Kubrick (ci
sapeva fare, non c’è molto altro da dire) in “2001 – Odissea
nello spazio”. Se il Lux Æterna di Ligeti si muoveva
nell’universo dei grandi “pieni” sonori, con grappoli di note
vicinissime compresse in aggregati materici e primigeni, questa perla
dell’armeno Khachaturian (il brano è datato 1942) si muove,
all'opposto, sul grande vuoto che aleggia nello spazio siderale.
L’atmosfera è di desolata rassegnazione, gli aggregati verticali
sono pochissimi, al massimo 2 o tre voci, e creano un mondo al limite
dell’assoluto immobilismo, con movimenti melodici contenutissimi e
di chiara derivazione popolare (la musica armena merita senz’altro
di più che due parole, ma non è la sede per parlarne).
John Cage – 4’33”
[…]
Nessun commento:
Posta un commento