Terri
e io sono cinque anni che stiamo insieme e siamo sposati da quattro.
E la cosa tremenda, veramente tremenda, ma anche buona, la grazia
salvifica, la potremmo definire, è che se a uno di noi succedesse
qualcosa – scusatemi se lo dico – insomma, se succedesse qualcosa
a uno di noi, mettiamo domani, secondo me, l'altro, l'altra persona,
soffrirebbe per un po', sapete, ma poi il superstite ne uscirebbe e
amerebbe di nuovo, si troverebbe presto un'altra persona da amare. E
tutto questo, tutto questo amore di cui stiamo parlando, diventerebbe
solo un ricordo.
Raymond Carver, Di cosa
parliamo quando parliamo d'amore (1981)
Avete presente la Trilogia sulla morte
di Iñárritu? Ma soprattutto
quella sensazione di disperazione totale e di vuoto dato da questa
tragedia che in fondo è la nostra vita? Bene. Resettate tutto.
Iniziate ad intonare dentro di voi un motivetto jazz di batteria,
stile bum-bum-cha, e magari mettetevi in mutande davanti al computer
per sentirvi più liberi, nel frattempo lasciate che vi racconti
Birdman o
(l'Imprevedibile virtù dell'Ignoranza).
Il
messicano Alejandro González deve aver fatto i conti con se stesso in seguito
alla controversia
con lo sceneggiatore Arriaga, il quale l'aveva affiancato durante la
realizzazione dell'intera Trilogia, per poi lasciarlo solo con
Biutiful.
«Dopo tanti film drammatici, ovvero un miscuglio di chili messicano,
volevo il dessert: desideravo mollare la mia zona comfort e provare a
far ridere». Mi immagino sia approdato a questa decisione dopo
lunghe discussioni con il suo alter
ego, un alter
ego alla Birdman di
Riggan Thomson, per intenderci. E ha fatto bene. Sì, perché il film,
il cui sviluppo si concentra in uno lasso di tempo di pochi giorni,
racconta la messa in scena di una pièce teatrale di Carver, per opera
di una compagnia diretta dal protagonista Michael Keaton, nei panni
del suddetto Riggan. Già attore di Hollywood, egli sbarca a Broadway
per riscattarsi dall'immagine dell'arcinoto supereroe Birdman di cui
aveva vestito i panni all'apice della sua carriera. Che Riggan stia a
Birdman come Keaton a Batman è già stato dichiarato dal regista,
quindi niente superomismo da scoperta dell'acqua calda. Meno scontato
è ricordare che in effetti anche il buon Edward Norton – Mike nel
film – ha interpretato il supereroe Hulk nel film di Leterrier del
2008. A completare il cast mancano all'appello la bionda Naomi Watts
(che già aveva lavorato con Iñárritu), la bruna Andrea Riseborough
(We want Sex),
il saggio Zach Galifianakis e la piccola tentatrice Emma Stone.
La
pièce portata in scena vede sul palco due coppie, costituite da
Riggan con Laura (la Riseborough), e Lesley (Naomi Watts) con Mike.
Coppie nella finzione ma anche nella realtà. I due piani infatti si
intrecciano per tutta la durata della proiezione, mescolati ad una
buona dose di surrealismo, talvolta rendendo piacevolmente difficile
allo spettatore orientarsi tra i due; merito anche della tecnica
dell'ininterrotto pianosequenza, in realtà apparente poiché ottenuto
in post produzione. La telecamera segue gli attori in ogni loro
spostamento all'interno e attorno al teatro, talvolta in soggettiva,
talvolta simulando la soggettiva di un narratore voyeur
che li spia nascosto dietro qualche angolo.
L'intreccio
e i personaggi ruotano attorno alla figura di Thompson, il quale, da
sessantenne che si rispetti, vive questo progetto teatrale come una
seconda rinascita artistica. Le incomprensioni con la figlia
trascurata, il legame con l'intramontabile ex moglie, i problemi con
la nuova compagna, la competizione con Mike, sono solo l'escamotage
narrativo per analizzare i dubbi di un artista (?) che vuole
replicare il suo successo al botteghino, dimostrano a critici e
pubblico di poter “fare teatro”. Riggan Thompson vuole piacere,
ha bisogno di essere ricordato dal pubblico e dalla critica, al punto
da obnubilare l'importanza della propria morte, se di essa non verrà
data la notizia sulla prima pagina dei giornali. È in questi
spaccati che Alejandro González non tradisce la sua ossessione verso
i temi a lui più cari, come quello della morte, sebbene declinati in
una cornice più leggera. Il protagonista si fa portavoce di un
divario che va oltre la sua figura, quello tra “blockbuster” e
“cinema alto”, da cui deriva poi la divergenza tra gli interessi
del grande pubblico, che ha il potere di far salire un film in cima
al box-office, ed il gusto della critica e di una manciata di
spettatori interessati che come unico riconoscimento da offrire hanno
una bella stretta di mano. Il punto è: vendersi per garantirsi
l'immortalità, oppure essere autori e morire dimenticati da tutti ma
con una buona recensione sulla prima pagina del New York Times?
Rassegnatevi, perché il film in realtà non offrirà una risposta a
questo interrogativo artistico, e questa è probabilmente l'unica
pecca che mi sento di sottolineare. È anche vero che il ruolo della
critica viene abbassato al livello di una macchina per stroncature
(“Uno fa il critico se non può fare l'artista”, diceva
Flaubert), il che fa riflettere su quale possa essere l'opinione del
regista in merito.
Norton, Keaeton, González Iñárritu. |
Il
conflitto interiore di Riggan-uomo trova invece pace, una pace che si
può forse leggere attraverso le parole dello stesso scrittore
Raymond Carver: nel monologo di Riggan si racconta di un uomo che
dopo aver fatto un incidente con la moglie non riesce a rallegrarsi
all'idea che la compagna se la caverà, poiché non può vederla
avendo il volto totalmente ingessato. Dalle fasciature rimangono
fuori due piccoli buchi per gli occhi che non consentono la visione
della donna, unica fonte di felicità. Allo stesso modo, al termine
delle tre anteprime, Riggan si ritroverà in ospedale – non
spoilero qui il finale – con il volto fasciato e solo due piccoli
buchi per gli occhi. Nonostante le critiche positive sullo
spettacolo, non si sente soddisfatto, non ha ancora capito cosa vuole
veramente, anche il suo alter
ego Birdman ha smesso
di parlargli. Improvvisamente si alza, si reca davanti allo specchio
ma non riesce a vedersi bene, deve togliersi le bende per osservarsi.
Si strappa dunque quella fasciatura che l'uomo del racconto non ha
potuto togliersi, ed improvvisamente sembra capire cosa vuole, cosa
può renderlo felice e libero davvero. E l'unico modo che ha avuto
per capirlo non sono stati i giudizi degli altri, gli occhi degli
altri puntati su di sé, ma piuttosto quel nuovo modo di guardare
dentro (e fuori) di sé, dato dall'eliminazione di tutti quei filtri
che rinchiudevano il suo sguardo entro sterili limiti.
Non
sono qui a profetizzare un Oscar, dirò solo: Iñárritu interprete
della realtà, Michael Keaton ed Edward Norton veri artisti, colonna
sonora di Antonio Sanchez pazzesca, fotografia e montaggio perfetti e
metacinema a non finire. What else?
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