Cento metri per battere i giganti: la leggenda infinita di Kim Collins

Tutti pensano che, per battere Bolt, devi correre in 9‘‘5. No, devi solo essere lì quando corre più lento di te. Potrebbe arrivare e correre in dieci secondi netti, e tu potresti vincere in 9‘’99.

“Everyone thinks, in order to beat him you have to run 9.5. No, you just have to be there when he runs slower than you. He might come and run 10 flat, and you could win in 9.99“.

Kim Collins


Tanti corrono per sfogarsi, per vincere, per realizzare un sogno. Kim Collins no: «Ho scoperto che alle ragazze piacciono i ragazzi che corrono forte».
Alcuni si allenano duramente, fanno sedute infinite, rinunciano alla vita sociale. Kim Collins no: «Se non mi va, avverto l‘allenatore».
Molti velocisti vivono in palestra, sono alti quasi due metri, pesano 95 chili di muscoli. Kim Collins è uno e settantacinque per 68 chili: «Non è indispensabile massacrare il proprio fisico per ottenere risultati nello sport».
La famiglia tradizionale prevede marito, moglie e – dice papa Francesco - massimo tre figli. Kim Collins è il sesto di undici fratelli: «Ma mamma non li ha fatti tutti in una volta. Mio padre non lo conosco, lei ogni tanto aveva un fidanzato diverso».
Nell’atletica leggera, soprattutto nella velocità, non ci dovrebbe essere posto per Kim Collins, ma lui se ne frega. È nato nel 1976 a Saint Kitts and Nevis, due minuscole isole delle Piccole Antille da 50 mila abitanti che erano conosciute, fino al 2001, solo come paradiso fiscale. Poi sono arrivati i Mondiali di Edmonton, e con loro un nanerottolo capace di fare lo sgambetto ai giganti.
Nella città canadese, quando si presenta alla partenza dei 200 metri, Collins ha 25 anni ed è quasi sconosciuto. Supera il primo turno, fa il personale ai quarti, passa le semifinali con il secondo peggior tempo tra i qualificati. In finale corre in prima corsia, la meno favorevole. Uno dopo l’altro, riprende quasi tutti. Vince Kostantinos Kederis, ma dal secondo al settimo posto sono tutti raccolti in cinque centesimi di secondo. Il fotofinish assegna a Collins la terza posizione con 20‘’20, primato personale. È la prima medaglia di Saint Kitts and Nevis ai Mondiali.



I campioni sulla cresta dell’onda, però, restano altri: per esempio, ai giochi del Commonwealth del 2002 i protagonisti annunciati sono i britannici Dwain Chambers e Mark Lewis Francis. Nei 100, tutti gli occhi sono puntati su di loro. Ma vince Kim Collins, mentre i due favoriti sprofondano alle ultime due posizioni. All‘antidoping è positivo al salbutamolo, una sostanza che si trova nel farmaco con cui cura l’asma. Evita la squalifica perché in buona fede.
A 26 anni, è già eroe nazionale. Gli intitolano un’autostrada (la Kim Collins Highway), che percorre a bordo della macchina con autista che da quel giorno lo aspetta in aeroporto tutte le volte che torna in patria. Passa il tempo tra casa e Stati Uniti, ha due fidanzate, è padre, si diverte a fare il deejay dilettante. Quando gli va corre, senza esagerare. In inverno vince un’altra medaglia mondiale, argento nei 60 metri indoor.
Arriva l’estate, arrivano i Mondiali di Parigi. Collins supera le qualificazioni dei 100 senza grossi problemi, è in finale. Come a Edmonton, in prima corsia. Ma nei 100 la strada è dritta, stare al margine non è un problema. È quasi meglio: nessuno ti vede. Guardano tutti il centro della corsia, verso i più forti. Chi sta ai margini può scappare, provare il colpaccio. Il piccolo Collins fa così. Quando gli altri si avvicinano, è troppo tardi: è campione mondiale con 10‘’07, un tempo altissimo. Dicono che ha vinto perché è una gara pulita, o perché mancano i più forti. Falso. In finale ci sono Chambers e Tim Montgomery, poi squalificati perché dopati. E i più forti partecipano quasi tutti, ma quelli che non escono prima (come il primatista mondiale Maurice Greene) si fanno schiacciare dalla tensione della finale. Collins è sempre più eroe della patria: «A casa staranno ancora tutti cantando, bevendo e fumando. Sicuramente la più bella festa dal giorno della conquista dell' indipendenza». Qualche anno dopo il 25 agosto diventerà festa nazionale, il Kim Collins Day.




Nel 2004 va alle Olimpiadi di Atene, ma i riflettori sono puntati su altri: Greene vuole bissare l’oro di Sydney, stanno esplodendo Asafa Powell e Justin Gatlin, Francis Obikwelu è in stato di grazia. Vince Gatlin, in una finale spaziale. Collins è sesto, gli esperti considerano l’oro dell’anno prima un un incidente di percorso nella storia dell’atletica. Ha dato due medaglie mondiali a un paesino minuscolo, basta così. Il tempo passa, gli atleti diventano sempre più grossi. Non c’è più spazio per Kim Collins.
Forse.
I Mondiali di Helsinki 2005 si disputano senza Powell, il nuovo primatista del mondo, infortunatosi poche settimane prima. Gli altri ci sono tutti, e vanno dannatamente forte. Collins li guarda sfrecciare, sornione. Ai quarti di finale ottiene l’ultimo tempo di ripescaggio. Nella sua semifinale chiude quarto, ultima piazza disponibile per la finale, con un centesimo sul quinto. In finale non lo guarda nessuno. Lui ringrazia ed è terzo, dietro a Gatlin e Frater. Altro sgambetto, altra medaglia.

 

Nel 2008, Mondiali indoor, è ancora argento nei 60 metri. A Pechino, nello show di Usain Bolt, arriva sesto nei 200. È il canto del cigno. Ormai ha 32 anni, troppi per un velocista. Nel 2009, ai Mondiali di Berlino, esce ai quarti di finale sia nei 100 che nei 200, mentre Bolt sbruffoneggia e polverizza record. A fine anno, si ritira. La sua fiaba è finita.
Anzi, no.
La sindrome di Jordan colpisce anche gli eroi minuscoli dei Paesi minuscoli. Nel 2011, Kim Collins rimette le scarpe chiodate. Ha 35 anni, è fermo da molti mesi. I presupposti per un fallimento epocale ci sono tutti. Va ai Mondiali di Daegu. Nelle graduatorie 2011, ci sono venti atleti più forti di lui nei 100. Ma la fortuna tifa Saint Kitts and Nevis, e interviene. Asafa Powell e Tyson Gay, i due avversari di Bolt, si fanno male prima di partire. Collins ringrazia e arriva in finale facilmente. Tutti aspettano lo show di Bolt, che non dovrebbe avere rivali. L’unico che può mettergli i bastoni tra le ruote è il connazionale Yohan Blake. Pochi puntano sul ventunenne francese Christophe Lemaitre, primo bianco nella storia a scendere sotto i dieci secondi nei 100 metri.
Bolt è rilassato. Scherza sui blocchi, attira le telecamere, indica gli avversari e fa segno che no, non vinceranno loro. Vincerà lui. È tranquillo, anche perché il regolamento sulle false partenze è cambiato. Ora, si viene squalificati già alla prima. Il sistema, pensato per le televisioni, impedisce ai più incoscienti di scattare sul filo dei millesimi. Così vincono i più forti. Sempre che non abbiano troppa fretta. Usain Bolt è un cannibale, tutti lo chiamano così. Usain Bolt mangia il pollo fritto, lo diceva lui stesso a Pechino. La logica conseguenza è una sola. Lo starter spara due volte. Bolt impreca, il pubblico urla. Falsa partenza, è fuori. Si ritorna sui blocchi. Kim parte come una scheggia e resta in testa per 60 metri. Vince Blake, secondo Walter Dix, Collins è terzo. L’ennesimo sgambetto, l’ennesimo squarcio di gloria. 


Peccato non far parte di un Paese più grosso, con tre compagni decenti si potrebbe provare la staffetta. Ma la fortuna, si diceva, adora Saint Kitts and Nevis. E nel 2011 ha donato a Collins tre soci passabili. Nel primo turno, i quattro moschettieri fanno il record nazionale e agguantano l’ultimo posto disponibile per la finale. La loro corsia è quella interna, le curve sono strette. Ma nessuno ti vede, se sei in prima corsia. Fino all’ultimo cambio, Gran Bretagna e Stati Uniti sono lontani anni luce, alle calcagna della Giamaica. Poi, prima dell’ultima frazione, si eliminano a vicenda. Bolt fa l‘ennesimo record del mondo, la Francia è seconda. Kim Collins arriva un centesimo davanti al polacco. Un Paese che ha meno abitanti di Imola è terzo in una staffetta mondiale.



L’anno dopo c’è Londra. Kim Collins, alla quinta Olimpiade, ci crede. Ormai, ci credono anche gli appassionati: stavolta la medaglia olimpica può arrivare. Basta essere lì, pronti per un altro sgambetto, la staffetta è abbordabile. Collins è il portabandiera, e non potrebbe essere altrimenti. Ma il giorno dei 100 non scende in pista. La federazione gli ha revocato l’accredito, cacciandolo via da Londra. Motivazione: ha saltato qualche allenamento e ha passato la notte in albergo con sua moglie. «Persino i detenuti ricevono visite dalla moglie. Non correrò mai più per il mio Paese».

Fine dell’idillio. Collins non è più un atleta di Saint Kitts and Nevis. A inizio 2013 la polizia uccide suo fratello, perché ha accoltellato la moglie e aggredito la polizia. Collins, tornato in patria per il funerale, viene arrestato e accusato di non aver pagato gli alimenti ai figli. Non è più un eroe. Non va sotto i dieci secondi nei 100 dal 2003. A 37 anni, la fiaba di Pollicino che faceva lo sgambetto ai più forti è finita.
Certo, come no.
In estate Gay, Powell e tanti altri vengono squalificati per doping. Intanto, un atleta piccolissimo torna sotto i dieci secondi. Kim Collins, indomabile, migliora il suo primato personale datato 2002. L‘aveva siglato ai Giochi del Commonwealth, diventando un eroe nazionale. Stavolta fa 9‘’97. Nel 2014 un altro ritocco: 9‘’96. È l’uomo più vecchio di sempre sotto i dieci secondi. Quest’anno ne fa 39, e nelle sale di tutto il mondo sta andando in scena l‘ennesimo show. In febbraio ha migliorato due volte il suo primato personale sui 60 metri, prima 6‘’48 e poi 6‘’47. Finora ha siglato i quattro migliori tempi mondiali dell‘anno.
Molti ci provano, ma non vincono e lasciano perdere. Kim Collins no: ha un oro e quattro bronzi mondiali all’aperto, due argenti mondiali indoor e un oro ai Giochi del Commonwealth, e continua a correre. Corre perché a casa mangiano, coi soldi che guadagna nei meeting. Corre perché si diverte. Corre, perché alle ragazze piacciono i ragazzi che corrono forte.


 (Kim Collins e Jesse Owens. GIURO.)

Riccardo Rimondi

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