La provocazione elvetica


L’8 febbraio scorso la popolazione della Confederazione Svizzera si è espressa, con il risicato 50,3% dei consensi popolari, in favore di un’iniziativa di legge che restringe il flusso di persone con l’UE. Il referendum era stato promosso dall’UDC (Unione di Centro), partito populista e anti-europeista, con il concreto obbiettivo di costringere il governo federale a rivedere l’accordo di libera circolazione con Bruxelles e a rintrodurre le quote per i lavoratori stranieri. Nonostante l’opposizione di tanti settori della società civile svizzera, come i sindacati e le associazioni degli imprenditori, i sentimenti più ostili e refrattari all’immigrazione hanno prevalso, e sinceramente, credo che di questi tempi, prevarrebbero in molti altri ben meno prosperi contesti europei. Ha prevalso quindi il timore, la paura, la xenofobia e slogan come quelli che abbiamo tante volte sentito pronunciare dagli uomini dai modi burberi e adornati di dettagli verdi, del tipo “Via gli immigrati che ci rubano il lavoro!”
Ovviamente molti quotidiani del nostro paese si sono preoccupati delle ricadute che questo referendum potrebbe avere sui cittadini italiani che attualmente occupano un posto di lavoro in Svizzera (i cosiddetti “frontalieri”), prevalentemente nel confinante Canton Ticino. Proprio in questo territorio, a causa di una certa avversione per questi nostri connazionali, si è raggiunta una punta del 68% dei sì. Andrebbe tuttavia anche considerato e analizzato come questo voto popolare potrebbe modificare i rapporti bilaterali tra il governo di Ginevra e l’Unione Europea.
Inizialmente la reazione della UE pareva essere improntata alla linea dura. In sostanza gli elvetici si sono visti congelare i negoziati per l’accesso al grande mercato elettrico che è in procinto di essere sviluppato. Inoltre, data a questo punto l’incertezza riguardo alla firma da parte della Svizzera del trattato di libera circolazione verso la new entry Croazia, l’Unione Europea ha bloccato la trattativa sui programmi di ricerca (Horizon 2020) e sulla mobilità degli studenti (Erasmus). Infine anche le discussioni sull’elaborazione di un patto istituzionale complessivo sono state temporaneamente fermate. Tuttavia negli ultimi giorni sembra che in quel di Bruxelles abbiano intenzione di tornare sui propri passi, ammorbidendo la posizione e riaprendo il dialogo diplomatico con Ginevra sull’accordo bilaterale istituzionale già menzionato.
Perché questa marcia indietro dell’Unione Europea? Quali considerazioni stanno alla base di questo comportamento ondivago e oscillante? Quali ansie e quali dubbi suscita questo voto popolare?
La realtà è che l’Unione Europea difficilmente può prendere una posizione netta in questa faccenda, perché ci sono evidenti svantaggi in termini di immagine e di percezione collettiva delle istituzioni europee tanto nell’accondiscendere quanto nel condannare. Naturalmente, in prossimità di una tornata elettorale che si preannuncia quanto mai minacciosa per la stabilità e la natura stessa del progetto d’integrazione, la percezione e le opinioni che i cittadini dell’Unione nutrono nei confronti delle istituzioni europee contano e contano tanto.
Perciò pronunciarsi in maniera perentoria sul referendum svizzero è tanto complicato. Se si censura e, di conseguenza, punisce in maniera troppo severa questo moto di tradizionalismo e orgoglio nazionale intriso di becero ed ignorante populismo, si rafforza l’impressione di un’Unione Europea fredda e distante anni luce dai sentimenti di quelli che teoricamente dovrebbero essere i propri cittadini. Ancora una volta si porrebbe l’accento su principi fondanti e insindacabili nella costruzione europea che, tuttavia, sono sempre di più messi in discussione nel dibattito politico dei paesi della zona euro. Oltre a ciò si sminuirebbe la rilevanza di un referendum nazionale che costituisce l’espressione del popolo sovrano di uno stato. Si farebbe quindi il gioco della marea populista, quella che minaccia di invadere il Parlamento Europeo, quella che mette insieme una novella Giovanna d’Arco, una manciata di conservatori inglesi che vivono nel mito di Margareth Thatcher e forse pure un ex comico italiano con la fissazione del web.
D’altra parte però chiudere un occhio sulle rimostranze elvetiche significherebbe trascurare un valore pregnante, quello della libera circolazione, su cui si basa l’intera costruzione europea. Un mattone che ne sta alle fondamenta e che se viene levato potrebbe far crollare tutto. Inoltre qua c’è in ballo secondo me anche una questione di solidarietà interna e la necessità di estirpare sul nascere qualunque tipo nazionalismo e di rivalità tra stati membri per garantire e tutelare l’armonia in seno alla comunità.

Quindi forse è arrivato il momento per Bruxelles di lanciare un messaggio forte a costo anche che questo possa rivelarsi un tremendo boomerang. È arrivato il momento di osare, di rischiare, di fare la voce grossa, di scordarsi per un attimo di avere di fronte un paese che fa dei capitali che custodisce gelosamente una potente arma di ricatto. Ma mi sembra evidente che la cautezza e la moderazione (senza voler fare riferimento agli interessi economici) abbiano già preso il sopravvento nei grigi palazzi della commissione. Come sempre, mi sorgerebbe spontaneo dire, purtroppo.

Valerio Vignoli

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