La Mostra del cinema di Venezia è sempre stata il fiore
all’occhiello dell’Italia e dell’Europa. La pregiata statuina d’oro è un
marchio di qualità per tutti i cinefili del mondo che aspettano la fine
dell’estate per sapere il titolo del film che meriterà il prezzo del biglietto
del cinema. Venezia ha, infatti, sempre premiato l’originalità e la bellezza
“dura e pura” e non la vendibilità del prodotto al botteghino.
Basta scorrere i titoli premiati dal 1946 e si può legge la
storia del cinema contemporaneo. Da Monicelli a Rossellini, passando per “Le
mani sulla città”, Venezia ha riconosciuto le tematiche sociali e la denuncia
di un mondo, quello degli anni sessanta, del boom economico e delle persistenti
ingiustizie sociali. Gli anni settanta hanno portato temi fin allora
considerati proibiti come in “Belle del jour” il discusso film di Bonuel ed
“Anni di Piombo”, per arrivare poi agli orientali con Kitano ed il suo “Fiori
di fuoco” e alle perle dei giorni d’oggi come lo splendido “Somewhere” della
giovane Coppola. Questi sono solo alcuni dei titoli che hanno segnato la
differenza tra film e capolavoro; ovvero la capacità di rappresentare tematiche
incisive di un momento storico ben preciso attraverso tecniche e sensibilità
artistiche notevoli.
Il film vincitore della settantesima mostra del cinema di
Venezia è stato “Sacro GRA” di Gianfranco Rosi, una pellicola tutta italiana
che ha fatto molto discutere gli appassionati e fedeli della mostra veneziana.
In prima analisi non è facile definire “Sacro GRA” un film; un film ha un
lavoro complesso alle spalle, una struttura solida di tecniche, astuzie e
finzioni che combinate insieme creano lo spettacolo assolutamente artefatto del
cinema. Quando si filma la realtà nuda, senza abbellimenti ed "artifizi" allora
si gira un documentario, che è ben altra cosa.
L’ibrido di Rosi risulta così una creatura che non trova una
precisa categorizzazione. Il regista ha percorso per tre anni il grande
raccordo anulare di Roma, venendo a conoscenza di personaggi “felliniani” che
popolano i pressi della celebre strada, maschere tipicamente italiane che
incarnano i pregi e difetti della nostra società ma che rimangono sole ed
abbandonate nella pellicola di Rosi. Chi ha apprezzato il Sacro GRA ne riconosce
il duro realismo e la veridicità delle scene descritte; ma come può definirsi
questo “realismo”?
Il realismo cinematografico è stato quello degli anni dopo
la seconda guerra mondiale, quello di Dino Risi e De Sica, quello di "Roma città
aperta" e di Anna Magnani, quello che raccontava della difficile condizione dei
braccianti e delle mondine creando una storia, seppur romanzata, intorno ai
personaggi. Rosi invece preferisce non raccontare alcuna storia, lasciando allo
spettatore l’incarico di giudicare da solo le immagine crude e fredde che
passano sullo schermo. Un nuovo
neorealismo? Non proprio, manca infatti una base solida a cui appoggiarsi, un
appiglio letterario o politico dal quale far scaturire una riflessione. La
completa mancanza di cura delle immagini e di “artifizi” cinematografici
suggerisce l’idea, forse, che questa opera non possa definirsi film, ma
documentario.
Forse la stimatissima giuria della settantesima Mostra del
cinema di Venezia ha voluto premiare l’originalità dell’opera di Rosi, ma ha
certamente escluso lavori ben più meritevoli e che possono vantare
l’appellativo di film. Il Sacro GRA rappresenterà in futuro un momento storico
come hanno fatto i titoli che l’hanno preceduto? Ai posteri l’ardua, (molto
ardua) sentenza.
Gaia Taffoni
Se da un certo punto di vista sono d'accordo con te, e probabilmente c'erano titoli più meritevoli del Leone, mi trovo in disaccordo sulle motivazioni: dove sta scritto che un documentario non è un film? E' vero, definirlo "nuovo neorealismo" è azzardato, ma la definizione non lo rende "meno film".
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