“Rivoluzionare” la cittadinanza promulgando lo ius soli oppure continuare su quel relitto chiamato ius sanguinis, prodotto di un’epoca passata e riconducibile all’Ancient Regime ?
E’ una proposta scomoda quella buttata sul tavolo dalla neo-ministra Cécile Kyenge che prevede l’allargamento dello spazio della cittadinanza, eppure può risultare un momento importante per ripensare al concetto stesso di cittadinanza e intavolare un dibattito costruttivo e costitutivo di una nuova cittadinanza. Lo Ius soli rappresenterebbe certamente una tappa fondamentale verso il riconoscimento dei diritti ai figli, nati in Italia, dei migranti, ma di fatto non risolverebbe il problema nascosto, o meglio troppo scomodo per essere nominato, dell’umanesimo liberal-borghese: il rifiuto del riconoscimento dell’altro. “A nulla servono i discorsi astratti sull’uomo, sull’umanità, se ciò che abbiamo di fronte non è una condizione umana comune, ma un mondo gerarchicamente diviso, un uomo amputato dalla sua umanità”. Con queste parole Frantz Fanon descriveva l’Algeria coloniale degli anni cinquanta. Dopo più di mezzo secolo quell’ “uomo amputato dalla sua umanità” è ancora davanti ai nostri occhi, è ancora il limite intrinseco alla democrazia liberale europea. Rilevante è mostrare come il riferimento all’altro sia costitutivo dell’origine di un modello di antropologia politica segnato da un rapporto con l’ “altro da se” connotato in termini di dominio e sfruttamento. L’antropologia politica moderna ha permesso all’individuo (moderno) di costruirsi come cittadino tracciando, allo stesso tempo, confini precisi che condannavano, e condannano, all’esclusione tutto ciò che è altro da sé. Importante risulta dunque leggere e indagare quel movimento di immaginazione e costruzione del soggetto moderno. Prendendo, ad esempio, spunto dalle opere di Locke, le quali ebbero una grandissima influenza nello sviluppo del dibattito sulla cittadinanza, possiamo vedere come l'individuo europeo si è immaginato e si è costruito come cittadino attraverso la violenta istituzione di precisi confini che delimitavano un dentro e un fuori dallo spazio della cittadinanza.
Per Locke la proprietà risultava essere centrale. Nella sua teorizzazione, proprietà è per prima cosa proprietà di sé, proprietà della propria persona; cioè la capacità dell'individuo di auto-disciplinarsi, ovvero tenere sotto controllo i propri impulsi. L'immagine è dunque quella di un soggetto estremamente razionale capace di soffocare i propri elementi irrazionali. Questa capacità di auto-disciplinamento è il presupposto, secondo Locke, per la proprietà di beni materiali. È dunque il disciplinamento a rappresentare la cifra d'insieme che permette agli individui di accedere all'“arena” della cittadinanza. Tutti quelli incapaci, però, di porre dei vincoli all'irrazionalità dell'uomo non potevano avere accesso a quello status privilegiato di cittadini. Ecco che quei confini, costitutivi dello stesso concetto di cittadinanza, emergono chiaramente mostrando il loro carattere violentemente escludente: il folle, l’ateo, il povero incapace di sopperire alla propria riproduzione a causa del “vizio” e della “pigrizia” e “naturalmente” la donna succube delle proprie emozioni. È attraverso questo processo di continua esclusione che si è andato progressivamente costruendo la soggettività borghese, quale soggettività storica del sistema capitalistico.
Decentrando il nostro sguardo possiamo vedere come altri confini, oltre quelli già citati, risultino altrettanto costitutivi di un preciso modello di antropologia politica. Il concetto di razza ha permesso all'individuo, costituitosi come cittadino, di recintare, di perimetrare lo spazio della civiltà e di esportare questo modello di riferimento al di fuori dei confini europei che si inscrivono all'interno del discorso sulla cittadinanza “europea”.
. Questi confini, che perimetravano e dividevano, ma soprattutto condannavo, sembrano oggi ricomporsi all'interno delle nostre metropoli riproducendo quella divisione coloniale tra suddito e cittadino che segna i corpi di milioni e milioni di persone a posizione subalterne.
La cittadinanza è la formalizzazione di uno status sociale predeterminato, è una formula giuridica che, se da una parte include, dall’altra opera una minuziosa e violenta esclusione del soggetto “altro”, ovvero del non cittadino.
Lo ius soli non modificherebbe quella che possiamo tranquillamente definire una società fondata sul razzismo e la divisione di classe, dove il multiculturalismo formale nasconde il rifiuto del riconoscimento dell’altro e dove, quest’altro, viene confinato a spazi e a condizioni ben definite. Fondamentale risulta dunque indagare anche il nesso strettissimo che la cittadinanza intrattiene con le migrazioni e come questo “fenomeno sociale complesso” scompone e altera il concetto stesso di cittadinanza rendendolo uno spazio di conflitto e di tensione.
Le migrazioni non sono un fenomeno italiano, greco o francese; sono un “fatto sociale totale”. Investono l’intero spazio globale e dunque non possono essere pensate come problematiche circoscritte a determinati confini nazionali. Le migrazioni “attraversano e condizionano le dimensioni costitutive di una società mettendo in tensione la materialità dello stesso concetto di cittadinanza”. I movimenti migratori sono per loro definizione indisciplinati e antisistemici ovvero ristrutturano l’impalcatura nazionale, ibridano la composizione sociale di quel determinato spazio che attraversano e alterano i codici nazionalistici di uno stato-nazione. I dispositivi che regolano la cittadinanza e i confini indicano la posizione di fronte ad un ordine politico e giuridico definendola appunto rispetto ad un “dentro” ed un “fuori”. Vediamo come le migrazioni mettono in crisi tale ordine come confine che garantisce un’unità di spazio e di diritto, mettendo in crisi il concetto westfaliano di stato-nazione. I movimenti migratori sono dunque rivoluzionari proprio per la loro matrice antisistemica. Ecco che allora lo stato–nazione, attraverso le sue politiche migratorie, grazie cioè a quella costellazione di dispositivi di potere, tenta di disciplinare le migrazioni, renderle cioè funzionali alle esigenze della sua società e alla riproduzione del mercato del lavoro, attraverso la produzione di una “mobilità regolata e funzionale”. Oggi il regime migratorio europeo si articola attorno a due cardini: la detenzione amministrativa e il permesso di soggiorno ( legato al contratto di lavoro). Questi due pilastri limitano strutturalmente (e violentemente) la mobilità sociale e spaziale dei migranti assegnandoli a posizioni di sub-ordine all’interno della fortezza europea e all’interno del mercato del lavoro. Questi dispositivi di potere, appunto, tendono ad inscrivere all’interno dello spazio europeo del XXI secolo, quella linea del colore che, il grande intellettuale afro-americano, W.E.B. Du Bois ci presentava come “il problema del XX secolo”; riproduce oggi nel nostro presente globale, quella netta distinzione tra suddito e cittadino. Ci troviamo oggi di fronte a nuove configurazioni del razzismo che risultano essere funzionali a sostenere politiche migratorie che puntano a regolare “la convivenza gerarchicamente ordinata di corpi diversi all’interno di un medesimo territorio, fino a legittimare vere e proprie forme di segregazione ( i centri di identificazione ed espulsione sono dei veri e propri lager dove non vi è nessuna considerazione per la vita e soprattutto la dignità umana).
Oggi nessuna grande metropoli, e neppure le città più piccole ( che riproducono la stessa divisione classista, razziale e settaria delle metropoli) potrebbero esistere, produrre ed essere competitive al di fuori della composizione ibrida e meticcia della sua popolazione e naturalmente del suo mercato del lavoro.
Non possiamo quindi pensare e indagare il concetto di cittadinanza senza far riferimento alle continue lotte dei migranti sul campo dei diritti che, attraverso pratiche di soggettivazione e di sottrazione da questo “mondo a scomparti”, che la cittadinanza di fatto fotografa, ne mettono in discussione lo stesso linguaggio e ne definiscono la natura conflittuale. Sono dunque convinto che la lotta dei migranti oggi non possa esaurirsi nel semplice accesso alla cittadinanza (seppur fondamentale), senza minarne radicalmente il fondamento al fine di alterarlo, in quanto prodotto di un’antropologia politica che ha costruito il soggetto cittadino sempre in relazione all’“Altro” non europeo e quindi basato sulla funzionalità dell’esclusione del soggetto migrante.
Oggi nessuna grande metropoli, e neppure le città più piccole ( che riproducono la stessa divisione classista, razziale e settaria delle metropoli) potrebbero esistere, produrre ed essere competitive al di fuori della composizione ibrida e meticcia della sua popolazione e naturalmente del suo mercato del lavoro.
Non possiamo quindi pensare e indagare il concetto di cittadinanza senza far riferimento alle continue lotte dei migranti sul campo dei diritti che, attraverso pratiche di soggettivazione e di sottrazione da questo “mondo a scomparti”, che la cittadinanza di fatto fotografa, ne mettono in discussione lo stesso linguaggio e ne definiscono la natura conflittuale. Sono dunque convinto che la lotta dei migranti oggi non possa esaurirsi nel semplice accesso alla cittadinanza (seppur fondamentale), senza minarne radicalmente il fondamento al fine di alterarlo, in quanto prodotto di un’antropologia politica che ha costruito il soggetto cittadino sempre in relazione all’“Altro” non europeo e quindi basato sulla funzionalità dell’esclusione del soggetto migrante.
Assumendo il punto di vista dei migranti, ci è permesso operare una forte cesura a concetti (sempre più in crisi) quali democrazia e cittadinanza e, perché no, tentare di riempirli di nuovi significati attraverso una loro radicale re-invenzione dall’interno di un processo di soggettivazione politica del soggetto migrante. Si tratta di andare oltre lo stesso concetto di cittadinanza, mettendo in luce la crescente difficoltà che il binomio cittadinanza e democrazia incontrano oggi nel “contenere” e “limitare” il fenomeno migratorio. Disarticolare dunque quel fitto reticolo di potere che recinta la cittadinanza, ovvero cortocircuitare quei dispositivi escludenti che ne hanno accompagnato l’evoluzione e l’istituzionalizzazione; la linea del colore, la linea di genere e la linea di classe, per poter iniziare a ragionare su un altro modello di cittadinanza, una nuova cittadinanza fondata su quella che il filosofo marxista francese, Etienne Balibar, definisce come la sintesi tra libertà e uguaglianza, egaliberté.
Davide Cattarossi
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