Silence kills - Tra mass media e conflitti dimenticati.



Senza voce, mute. Ecco lo stato nel quale si trovano molte (troppe?) crisi umanitarie nel mondo. Il silenzio su di esse a volte dipende dall'incapacità dei mezzi di informazione di seguire più eventi contemporaneamente, dalla drastica riduzione dei fondi a disposizione di giornali ed agenzie che si vedono costretti a tagliare inviati e sedi estere, dalla casualità della presenza di un reporter in Rwanda piuttosto che in Sudafrica in un momento storico. Altre volte, tuttavia, il silenzio è determinato da una scelta, una scelta ben precisa che può avere ragioni politiche e ragioni economiche.
Alcuni sostengono che all'opinione pubblica quelle notizie non interessano, molti pensano che una guerra tra clan di un qualsiasi stato africano non interferirà mai con il ritmo frenetico della vita nei paesi occidentali. Peccato che questi molti pecchino di una superficialità disarmante.
Viviamo in un mondo estremamente globalizzato, e ormai lo sappiamo, ma ci siamo mai interrogati realmente su cosa comporta questo? Siamo forse destinati a vivere in un ambiente globalizzato, ma caratterizzato da una provincializzazione mediatica e mentale?
Globalizzazione commerciale ed immigrazione sono in questo senso facce della stessa medaglia, accomunate dal limitato peso che l'opinione pubblica dà ad esse. Chi saprebbe distinguere con precisione un immigrato clandestino, un immigrato, un richiedente asilo e un rifugiato?
È proprio qui che scorre la fessura tra un vivere contemporaneo consapevole e uno semplificato. Ed è proprio per evitare che questa fessura diventi un cratere che l'informazione assume un ruolo principe.
Non è certo sufficiente la parola per risolvere un conflitto, ma a volte un reportage o un documentario possono rappresentare un'occasione da cogliere; un'occasione per superare la frustrazione del silenzio e dell'incomprensione affinché la storia possa trovare delle orecchie pronte ad ascoltarla. Riprendendo il filosofo e pedagogista americano John Dewey, l'orecchio è superiore all'occhio perché la vista è spettatrice, mentre l'udito è partecipante: ascoltare significa, poi, prendere la parola e agire.
L'informazione muove fondi, volontari, azioni: un'informazione di prima mano, scevra da condizionamenti e pressioni di interesse può superare la diabolica logica della “vittima utile” che governa l'occhio di bue della stampa internazionale in cerca di compassione e donazioni ora su una crisi ora sull'altra facendo leva su un serpeggiante senso di colpa proprio della popolazione benestante del pianeta.
Il reporter polacco Ryzard Kapuscinski, in un'intervista, descriveva così il suo mestiere: “Il vero giornalismo è intenzionale, vale a dire che si prefigge uno scopo e cerca di produrre un qualche cambiamento. Il buon giornalismo non può essere che così. Basta leggere gli scritti dei grandi giornalisti, le opere di Mark Twain, Ernest Hemingway, Gabriel Garcìa Màrquez, per vedere che il loro era un giornalismo intenzionale. Si battevano tutti per qualcosa. Raccontavano per ottenere qualcosa.” Che cosa, è lecito chiedersi? Un modo per superare le barriere dello spazio e del tempo, dando così senso alla globalizzazione umana e aprendo la strada ad un consolidamento della propria identità che permette il dialogo con l'altro. Il reportage, sempre secondo Kapuscinski, è tale se permette di coinvolgere il lettore con un senso di empatia e raggiunge il suo obiettivo quando rende invisibili dipendenza e subordinazione, esaltando invece l'intesa e la potenziale collaborazione tra due popolazioni diverse, tra due culture opposte polarizzate sul crinale che separa Nord e Sud del mondo.
L'informazione assume, quindi, un carattere quasi di valore, in virtù della sua capacità, unica, di avvicinare anche gli elementi più distanti, le situazioni più opposte, i punti di vista più contrastanti. 

Angela Caporale

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