Avete
presente gli Arcade Fire? La band canadese che, coniugando
miracolosamente autorialità e gusto pop, ha portato quello che
sarebbe ora di smettere di chiamare indie-rock alle vette del
successo commerciale, riuscendo a fornire una proposta di altissima
qualità attraverso quattro album e dieci anni di carriera? Ecco,
questo articolo non è su di loro. (questa invece è una specie di recensione di Reflektor del nostro Filippo Batisti)
Non
tutti loro, almeno. Perché il 33enne Will Butler, giovane
polistrumentista fratello e compagno di band del cantante degli AF
Win, ha da poco rilasciato un disco, Policy, uno di
quei dischi che vale la pena ascoltare.
Registrato
in una sola settimana durante una pausa dal tour con gli Arcade Fire
ed uscito il 3 febbraio 2015 via Merge Records, Policy
ha visto la luce negli Electric Lady Studios di New York
grazie alla collaborazione tra il nostro Butler (che ha suonato
praticamente tutti gli strumenti presenti nel disco tranne la
batteria) e il già batterista degli AF Jeremy Gara (appunto). In
realtà il disco non è la prima esperienza da solista del giovane
Will: Butler si è già distinto per aver lavorato alle colonne
sonore del film Home Burial di Jeff Newberg e, soprattutto,
Her, l’acclamato ultimo lavoro di Spike Jonze, la cui
musica – composta insieme al bassista degli AF Owen Pallett – ha
ricevuto una nomination agli Oscar 2014 come “Miglior colonna
sonora originale”.
Policy,
per ammissione dello
stesso Will, è una sorta di compendio
di musica americana degli ultimi decenni.
All’interno un orecchio attento può cogliere gli echi della new
wave anni Ottanta come del blues dei primordi, le ballads
per pianoforte di Leonard Cohen e i pezzi tirati dei Ramones passando
per il rock’n’roll classico, anche se sinceramente faccio fatica
a cogliere le influenze di Ghostface Killah, che pure risultano tra
quelle dichiarate da Will stesso.
Questo
calderone di influenze e spunti, che dovrebbero riflettere l’onnivoro
gusto musicale dell’autore, viene amalgamato e tenuto insieme da
una malta particolare, questo indefinibile senso di arcadefire-osità
che pervade tutte le tracce, pur senza puzzare di plagio o mancanza
di originalità in nessun modo. Sarà che la voce di Will è la
stessa che si sente nei dischi della formazione di Montréal, sarà
che Will in quanto co-autore di alcuni dei brani ha riversato un po’
del suo carattere nella band, sarà che dieci anni di una tale
esperienza ti segnano per sempre; sta di fatto che il carattere e
l’attitudine sono quelli, inconfondibili, ma lo stile riesce a
risultare fresco e personale senza sembrare uno scadente spin-off del
progetto principale.
Anche
perché Policy
è un disco che viene dalle profondità ctonie del suo autore, è
strettamente personale. Ha a che fare con la rabbia, con la violenza
– anzi, l’ultraviolenza
di Kubrickiana memoria, come ha modo di dire lo stesso Will in
un’intervista:
la violenza è intesa come una delle forze fondamentali che spingono
avanti la vita, la sensazione di potenza totale e incontrollabile che
può provare un diciassettenne in un certo momento della sua vita e
che subito se ne va, rubata dalla pacatezza della maturità. È la
violenza dell’uomo che cerca di descrivere il mondo a priori, ma
anche la violenza del mondo che esiste al di là e prima della
descrizione dell’uomo, e con il quale questi alla fine deve fare i
conti.
Un particolare della copertina di Policy |
Ma
è anche un disco di spirito, o meglio di spiritualità: ha a
che fare con la divinità e il rapporto che intrecciamo con essa.
“Son of God”, la quarta traccia, è piena della rabbia che
scaturisce dalla mancanza di una guida, dal ritrovarsi persi in un
mondo in cui sai di stare agendo male, ma non sai come cambiare
direzione. E allora la voce narrante dice “Se vuoi svergognarmi, dì
il mio nome/e se vuoi biasimarmi, allora colpiscimi con il tuo
biasimo”, ma il coro gospel subito dopo canta “Se il Figlio di
Dio scendesse adesso e mi dicesse cosa fare con la mia faccia/Se me
lo scrivesse di suo stesso pugno/Allora sarei buono, giuro che sarei
buono”.
In
mezzo a tutto ciò trovano spazio le suggestioni discodance di
“Anna”, la seconda canzone nonché secondo singolo estratto
dall’album, e la paraculissima “Something is coming”, che senza
dire niente di niente ti butta lì una batteria in levare sotto a un
synth che suona come dovrebbe suonare un adorabile mascalzone – e a
quel punto proprio non riesci a non ballare. Ma ci sono anche le due
ballate intimiste di “Finish what I started” e “Sing to me”,
da ascoltare a occhi chiusi sul letto, e l’irresistibile “What I
want”, che riporta subito alla mente la “Month of May” degli
Arcade Fire ma meglio. Come si può non amare un uomo che canta “If
you come and take my hand, I will buy you a pony/We can cook it for
supper/I know a great recipe for pony macaroni”?
Piccola
nota di colore: la versione standard dell’album è composta da otto
brani, mentre la doverosa precisazione del titolo di questo articolo
indica che qui stiamo parlando della versione estesa, la “Deluxe
Version” appunto, che contiene cinque brani in più. Questi
cinque brano sono il frutto di un esperimento che il giovane Butler
ha portato avanti a partire dal 23 febbraio 2015: una volta al
giorno, per una settimana, alle 7 del mattino il nostro si alzava e
leggeva con attenzione le notizie del Guardian, per poi
scrivere, registrare e mixare nel giro di poche ore una canzone
ispirata a una delle news. Per le 15, orario americano, la
canzone era pronta per essere spedita in Gran Bretagna alla redazione
del giornale.
Will Butler |
Parlando
del progetto, Will
ha detto: “Adoro le notizie. Leggo più i giornali di quanto
non ascolti nuova musica. Artisticamente parlando al momento
m’interessa di più l’abilità ‘artigianale’ del virtuosismo.
I giornali sono quotidianamente pieni di artigianato coraggioso”.
I
cinque pezzi sono gli ultimi del disco e sono ispirati alla crisi del
debito greco (“Clean monday”), al contrasto tra il nazionalismo
chiuso e gretto dei separatisti ucraini e la grande figura del
combattente sudafricano anti-apartheid Moses Kotane (“Waving Flag”,
forse la più fiacca del disco), alla crisi idrica che ha messo in
ginocchio la città brasiliana di San Paolo (“You must be
kidding”), a come le cose umane sembrino piccole di fronte alla
scoperta di un buco nero svariati miliardi di volte più grande del
nostro sole (“Madonna can’t save me now”), e allo Stato
Islamico che saccheggia il Museo Centrale di Mosul (“By the waters
of Babylon”).
Con
Policy, Will Butler si conferma non solo polistrumentista
capace ma anche artista poliedrico. È una di quelle rare
personalità in grado di assorbire gli stimoli che gli giungono dal
mondo esterno e processarli in un modo tutto personale, attraverso la
sua musica, aggiungendo i suoi pensieri, la sua visione, il suo
composito universo concettuale, per poi risputarli fuori in una forma
non solo di dignitosissimo contenuto artistico, ma anche più che
godibile da un punto di vista puramente sensoriale: potrei leggere i
suoi testi con attenzione e rifletterci per ore, ma anche ballare le
sue canzoni con un drink in mano senza pensare a niente se non a
tenere gli occhi chiusi e a seguire il ritmo della cassa.
Giovanni Ruggeri
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