The Ragged Trousered Philantropists è il romanzo marxista
britannico per eccellenza. Scritto all’inizio del XX secolo, fu
pubblicato censurato, dopo tanti rifiuti, nel 1914, dopo la morte del
suo autore irlandese Robert Tressell. Non è un trattato, né un
saggio sul socialismo - sebbene non manchino vere e proprie
spiegazioni educative terra-terra della teoria marxista - ma un
romanzo. Un’opera che, pur essendo l’unica mai scritta dal suo
autore, lascia trasparire un’abilità narrativa e una leggerezza
espressiva che soltanto pochi grandi talenti hanno avuto la fortuna
di possedere.
È
la storia di alcuni imbianchini impiegati presso una ditta chiamata
“Rushton & Co., Builders and Decorators” situata nel paesino
fittizio di Mugsborough, nel sud-est dell’Inghilterra, attorno al
1906. I giovani, gli anziani e i minorenni sfruttati che glitteravano
le case di cinici uomini di chiesa e capitalisti corrotti in cambio
di salari di sussistenza, vengono un giorno affiancati da Frank Owen,
un operaio qualificato che inizia a parlare loro con voce profetica,
della sua eccentrica visione di una società giusta. Il linguaggio
vrai, dialettale, analfabeta dei muratori che a malapena
sapevano leggere traspare dai dialoghi trasportandoci nella realtà
di quelle esistenze misere, sprecate. Una trama ricca di svolte
inaspettate, dialoghi brillantemente comici ed emozionanti allo
stesso tempo e resoconti dettagliati e talvolta perfino osé,
considerata l’epoca storica, del modo di vivere, di vestire,
mangiare e svagarsi degli inglesi dei primi del Novecento. Tressell
era stato uno dei lavoratori - scrisse il libro nel suo tempo libero
– e nella prefazione all’opera precisa che il suo intento
principale era quello di scrivere una storia degna di nota, piena di
interesse nei confronti dell’umanità e basata su avvenimenti della
vita di tutti i giorni; il tema del Socialismo era stato trattato
solo “incidentalmente”. Dal mio ingenuo punto di vista, Tressell
si imbatté nel tema sociale più che accidentalmente, quasi
premeditatamente. L’unica pecca del romanzo, infatti - volendone
trovare una se non altro in nome dell’oggettività di questa
analisi - è la ripetitività dei concetti che stanno alla base dello
spirito del capitalismo. La ripetitività, tuttavia, non è servita a
molto: le situazioni di sfruttamento descritte non sono estranee
nemmeno all’Italia del 2015.
Andando oltre a quelli che sono i luoghi comuni che scappano ad ogni
analisi di questo genere, il plusvalore aggiunto da Tressell sta nel
definire il concetto di povertà in relazione a quelli che sono i
“benefici della civilizzazione”. E’ povero colui che non è in
grado di assicurarsi i comfort, i piaceri e le comodità che lo
sviluppo tecnologico e il progresso culturale hanno portato
all’animale uomo. È povero colui che non si può permettere il
lusso di avere del tempo libero da dedicare ai libri, al teatro, alla
musica, alle vacanze e ai viaggi, al buon cibo, alle case belle e
confortevoli, ai vestiti comodi. Quest’affermazione ha delle
implicazioni che tutt’oggi valgono una profonda riflessione.
Il titolo, in pieno stile da humour inglese, è ironico. Tressell
finisce per dare la colpa ai proletari stessi per la vita a cui sono
costretti. Perché, pur avendo avuto la fortuna di imbattersi in Owen
- uno dei pochi che sapeva leggere ma soprattutto capire e ragionare
sulla realtà - che spiega loro la necessità di agire, di provare
almeno ad uscire da quella situazione ai limiti della sussistenza,
alla quale i loro stessi figli erano inevitabilmente destinati, si
rifiutano. Offrono le loro forze e la loro vita ai padroni nientemeno
che in beneficenza. Non ascoltano Owen, non lo capiscono, lo
deridono. Chi capisce invece, ha paura. Non può immaginarsi
un’esistenza diversa da quella che conduce e ha paura di perdere
anche quel poco che ha, la propria vita. Dalle parole di Owen
traspare pietà, rabbia e infine delusione verso quei lavoratori che
non riescono ad avere coscienza della propria condizione, ai quali,
fin da piccoli, l’ipocrisia della chiesa e della società ha
insegnato loro di non essere all’altezza, di essere creature
inferiori alle upper-classes vittoriane. Il poter vivere
usufruendo dei “benefici della civiltà non è roba che fa per noi”
– sbuffano gli imbianchini tornando al lavoro.
Il finale è happy se guardato
dalla prospettiva del breve periodo, ma non scontato e la speranza
con cui Tressell guarda nel futuro, verso il sorgere del “sole del
Socialismo”, racchiude un’ingenuità talmente pura da togliere il
fiato.
Morale
della storia: trattate bene gli imbianchini che vi dipingono la casa
e, se potete, dato che purtroppo non è mai stato tradotto in
italiano, pur avendo dato vita a film e numerose opere teatrali,
oltre che ad un’associazione che ne porta il nome, leggete questo
eccezionale romanzo.
Elena Calarasu
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