La prima cosa ci viene in mente quando pensiamo al giornalismo è tutta una serie di questioni su come viene fatta oggi l'informazione, dall'utilizzo dei new media al modo sempre più veloce di fruire contenuti grazie al web, fino alle testate giornalistiche che chiudono così come gli uffici di corrispondenza all'estero perché non ci sono risorse sufficienti, passando per le nuove figure dei giornalisti freelance e dei cosiddetti citizen journalists.
Gli strumenti del mestiere di Ruben Espinosa e Nadia Vera esposti dopo il loro omicidio | Fonte: polemicarevista.com |
Quasi mai invece pensiamo al fatto che quella del giornalista possa essere una professione pericolosa. Abbiamo indubbiamente ancora fresche le dinamiche dell'omicidio dei due giornalisti in Virginia, evento che però non è una conseguenza diretta del rischio intrinseco della professione giornalistica ma che ha aperto un dibattito importante sul ruolo del giornalismo e le sue modalità operative. Più calzanti sono altri esempi di rischi legati al fatto di essere giornalisti: in primis i pericoli che vivono ogni giorno i giornalisti di guerra, trasformati in veri e propri attori attivi all'interno dei conflitti in quanto raccontare una guerra può influenzarne le dinamiche politiche, diplomatiche e sociali, dandone un determinato quadro e percezione. E in questo senso recentemente abbiamo parlato della guerra in Siria raccontata dalla giornalista freelance Francesca Borri, che nel suo libro La guerra dentro – assolutamente da leggere per chi si interessa di giornalismo e politica internazionale – spiega non solo le dinamiche politiche di una guerra complessa ma anche e soprattutto l'incapacità dei media di raccontarla al mondo in maniera trasparente, con tutti i rischi che derivano per chi cerca di addentrarsi nella verità della notizia.
Ma un altro aspetto significativo per quanto riguarda i pericoli che si possono correre nel fare il giornalista – anzi, nell'esserlo – è quello relativo al ruolo di denuncia e di inchiesta che il giornalismo ha e deve avere nella società. Se pensiamo al giornalismo d'inchiesta potrebbe venirci in mente ad esempio la trasmissione televisiva Report di Milena Gabanelli, sempre dedita a denunciare scandali e truffe che inevitabilmente finiscono per dare fastidio a marchi, aziende, politici e anche istituzioni. E' facile immaginare le conseguenze di queste inchieste ed è forse ancora più facile immaginarle quando un giornalista inizia a scavare troppo a fondo, là dove qualcuno non vuole. E' il caso ad esempio della mafia e della criminalità organizzata in generale.
In Italia è eclatante l'esempio di Roberto Saviano, noto all'opinione pubblica per il suo libro Gomorra, una sorta di denuncia alla Camorra, ai vari clan mafiosi e agli interessi economici che ruotano attorno al mercato della droga. Che oggi Saviano viva sotto scorta e non abbia una vita libera è una conseguenza purtroppo (quasi) inevitabile, come racconta lui stesso in questo articolo. E il suo non è l'unico caso: anche il giornalista Sandro Ruotolo vive sotto scorta dopo le minacce ricevute dopo il reportage sulla Terra dei Fuochi da parte del capo del clan dei Casalesi, intercettato in carcere mentre riferendosi al giornalista di Servizio Pubblico, diceva: “O vogl' squartat' viv'”. E ancora: il giornalista Paolo Borrometi che riceve minacce su Facebook per le denunce dei malaffari mafiosi in Sicilia.
La criminalità organizzata non è però solo un problema italiano. In Sudamerica c'è ad esempio la criminalità legata ai narcotrafficanti, capace di infiltrarsi nelle sedi istituzionali e amministrative, rendendo quasi impossibile il perseguimento di una qualsiasi forma di giustizia, specialmente sociale. Il Messico è forse il Paese che meglio rappresenta tutto questo: secondo Reporters sans frontiéres sono 88 i giornalisti uccisi a partire dal 2010 e nel 90% dei casi gli omicidi sono rimasti senza colpevoli. A Veracruz sono 11 i giornalisti uccisi dal 2010 sotto l'amministrazione del governatore Javier Duarte ed è recente la notizia del ritrovamento del cadavere del fotoreporter Rubén Espinosa. Il 31enne corrispondente dell'agenzia Cuartoscuro e della rivista Proceso è stato trovato morto il 31 luglio a Città del Messico, assieme a quattro donne, tra le quali l'attivista e avvocata Nadia Vera. Espinosa era stato accusato dal portavoce del governatore di Veracruz di essere “un nemico del popolo” e a seguito di diverse minacce di morte era stato costretto a trasferirsi a Città del Messico, dopo che la rivista Proceso aveva messo in prima pagina una foto scattata da Espinosa che ritraeva Duarte con un berretto della polizia e a fianco il titolo “Veracruz, el estado sin ley” (Veracruz, lo Stato senza legge).
Le proteste per gli omicidi di giornalisti in Messico | Fonte: latimes.com |
La criminalità si mischia così al potere istituzionale radicandosi nel territorio e rendendo difficile anche la più timida forma di denuncia. Il 70% dei delitti di giornalisti hanno infatti come mandanti sindaci, governatori, ufficiali di polizia e dell'esercito, ossia proprio quei rappresentanti dello Stato che dovrebbero garantire la legalità, come sostiene Diego Enrique Osorno, 35enne reporter messicano che non manca di denunciare il regno dei narcos a Ciudad Mier. Giornalisti che hanno un nome e un cognome, come Regina Martinez, strangolata per aver denunciato gli scandali del potere, o Gregorio “Goyo” Jimenez, ritrovato in un sacco di immondizia.
Giornalisti e reporter diventano così dei corrispondenti di guerra in casa propria. Perché a volte anche le parole possono far tremare il potere semplicemente dicendo la verità.
Giuliano Martino
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