Quanti di voi conoscono
gli Opeth? Non molti, temo. Ebbene, per l’ennesima puntata
di “Guglielmo ci tedia con gruppi che conosce solo lui” (e non
dite che non l’avete già pensato), in questo articolo vi parlerò
degli Opeth, formazione svedese che suona delle cose che sfuggono a
una catalogazione precisa. In breve, sono passati dal death metal
al progressive rock. In lungo, è un po’ più difficile di
così.
Già dal primo album,
Orchid, del 1995, si intuiva la voglia di fare qualcosa di
diverso dal tappeto di doppio pedale, chitarroni intrecciati e growl
(per i meno scafati, il growl, termine che ricapiterà in
questo articolo, è un tipo di “canto” che assomiglia ad un
ruggito, appunto “growl”), accompagnando tutto ciò, tipico del
death metal, in lunghe escursioni strumentali, con passaggi di quieto
e malinconico folk e persino intermezzi jazzati. La situazione si è
evoluta attraverso Morningrise, My Arms, Your Hearse
(primo concept album della band; sempre per i meno scafati, il
concept album è un album in cui tutte le canzoni compongono un unico
affresco narrativo, sia sonoro che testuale. Per intenderci, tipo The
Lamb Lies Down on Broadway dei Genesis, sì, i Genesis, quelli
che ascolta vostro padre), Still Life (altro concept), fino ad
arrivare a quello che è considerato il primo vero capolavoro della
band, ovvero Blackwater Park, prodotto da Steven
Wilson (del quale ho parlato nel Sunday Up di qualche settimana fa), che nell’album si occupa anche delle tastiere e, punto
fondamentale, di arrangiare e cantare le armonie vocali, che da
questo album in poi diventeranno una caratteristica importante della
band. Anche la collaborazione (e l’amicizia) tra Mikael
Åkerfeldt, frontman, cantante, chitarrista, compositore di
musica e testi della band, e Wilson terrà banco in un dibattito
senza fine tra i fan, alcuni dei quali lo additeranno come “quello
che ha rovinato gli Opeth” (e anche su questo ritorneremo). Dopo
Blackwater Park, sempre con Wilson imbarcato, la band pubblica
la coppia di opposti Deliverance e Damnation: brutale
e oscuro il primo, forse il più pesante e impattante dei lavori
della band, soave e malinconico il secondo, registrato con il
preciso intento di mostrare il lato “non metal” della band, senza
growl, doppi pedali e altre amenità: quasi un disco prog anni ’70.
Dopo Damnation, Ghost Reveries e Watershed, in
cui la band porta al culmine l’accoppiata death/prog metal, per poi
virare improvvisamente con Heritage. Un album, questo,
omaggio al prog anni ’70 (l’eredità del titolo), ma
incredibilmente fresco e moderno nelle sonorità. L’album inaugura
un solco che proseguirà sul successore (tema principale di questo
scritto), che penso si possa definire death progressive (senza
metal): ovvero “cosa sarebbe successo se i Jethro Tull (non vi devo
dire chi sono, vero?) si fossero formati nel 2011”. Al mix torna
Wilson, assente nei due album precedenti, e ciò attira ancora una
volta le critiche dei fan “true metal”, che pensano
(sottovalutando tra l’altro enormemente Åkerfeldt e soci) che la
svolta prog sia dovuta al serioso inglese, sbagliando clamorosamente.
Eccoci, quindi, arrivati
al 2014 e a Pale Communion.
Personalmente penso che
l’album sia il migliore della band, o almeno il migliore di quelli
“non metal” (prendiamo il termine con le pinze), e comunque ad
alti livelli nella loro discografia. Il disco si apre con la stupenda
“Eternal Rains Will Come”, un diluvio (pun intended) di tastiere
anni ’70 con un’atmosfera epica e un groove potente, corredato da
splendide armonie vocali, alle quali prende parte anche il solito
Wilson (oltre a mixare l’album, anche qui). Segue “Cusp of
Eternity”, primo singolo del disco, che lascia poi la scena a uno
dei pezzi migliori dell’album, “Moon Above, Sun Below”,
mini-suite prog malinconica e atmosferica. Si viaggia successivamente
nel folk spettrale di “Elysian Woes”, e poi un divertente
siparietto di omaggio alla musica italiana (ovviamente la musica
italiana che ha lasciato il segno, non Gigi D’Alessio. Tra l’altro,
in uno dei suoi siparietti buffi, tempo fa, Åkerfeldt ha presentato
una canzone così: “this song was inspired by Gigi D’Alessio; if
you don’t know him, look him up on youtube and find out why this
was funny”), ovvero lo strumentale “Goblin”, ispirato dalla
formazione prog che (in una vasta discografia) ha curato la colonna
sonora di Profondo Rosso di Dario Argento. Segue un altro momento
alto, ovvero la bellissima “River”, raro caso di composizione in
maggiore della formazione svedese (ma non temete: parla comunque di
cadaveri che galleggiano sul fiume). Concludono l’album le potenti
“Voice of Treason” e “Faith in Others”, quest’ultima con un
prezioso arrangiamento orchestrale. Volendo, c’è poi un’edizione
speciale dell’album, che comprende un dvd con tracce bonus (o un
blu-ray: io ho trovato solo l’edizione col blu-ray, che adesso uso
per tagliare la pizza, visto che non ho un lettore blu-ray, ma per
fortuna c’era un foglietto per scaricare le tracce bonus, quindi I
ain’t even mad, e questa non riesco a spiegarvela, cercatela su
Google): i due pezzi sono in tono con l’album, sono due cover, una
è “Solitude” dei Black Sabbath e l’altra è un pezzo di
una band svedese, gli Hansson de Wolfe United. Entrambi i pezzi sono
impreziositi dalla splendida voce di Åkerfeldt, che palesemente li
adora entrambi.
Quest’album
approfondisce ancora di più il tema di Heritage, ovvero
innovare guardando al passato, e lo fa con un focus molto maggiore.
Se Heritage, pur bello, risultava dispersivo, i pezzi di
Pale Communion sono invece molto ben costruiti e molto ben
amalgamati in un unico affresco. La copertina dell’album, inoltre,
ci offre uno spunto di riflessione sugli Opeth, sulla loro musica e
sulla musica “triste” in generale, specie in base all’approccio
alla stessa che propone Wilson (vedere il mio scorso Sunday Up). Le
tre illustrazioni contengono tre citazioni in latino: la terza è una
frase di Marziale, “Ille dolet vere qui sine teste dolet”
(“è addolorato davvero chi piange senza testimoni”). La musica
degli Opeth ha un effetto catartico, e attraverso la
malinconia ci fa sentire meno soli: possiamo essere addolorati senza
testimoni visibili, ma sappiamo di non essere da soli.
Gli Opeth saranno a Milano lunedì 3 novembre per un concerto all’Alcatraz, con gli Alcest (ovvero un altro gruppo con effetto catartico: l’ultima volta che ho provato a sentire una loro canzone ho dovuto chiudere youtube perchè non ero da solo e non volevo farmi vedere in lacrime) in apertura. Ci sarò anche io, e dovreste esserci anche voi.
Guglielmo De Monte
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