Le analisi del giorno dopo sulle regionali in Emilia-Romagna non hanno tenuto conto di un fattore fondamentale, che dovrebbe essere il punto di partenza da cui sviluppare tutti gli altri. Nonostante gli scandali recenti, nonostante una politica che, non certo da ieri, si muove molto di più nei talk-show e nei social media che non sul territorio, nonostante i partiti vengano sempre più identificati nel leader, nonostante tutto, non si può non tenere conto che mancava uno stimolo fondamentale agli elettori per recarsi alle urne: la competizione.
Tutti sapevano chi avrebbe vinto, non c'era una concreta alternativa.
Basti pensare che nessun leader dei grandi partiti italiani ha sentito la necessità di spendersi particolarmente a favore del proprio candidato, ben consci del fatto che fondamentalmente i verdetti erano già stati scritti. Tutti tranne Matteo Salvini. Nelle ultime settimane ce lo siamo trovati praticamente ovunque, ed infatti le sue energie sono servite a contribuire all'unica, parziale sorpresa di questa tornata elettorale. Alan Fabbri, il candidato leghista del centrodestra, è riuscito ad arrivare secondo con quasi il 30% in una regione in cui la Lega Nord non ha mai goduto di particolari simpatie, ma non ha né la statura politica né la considerazione necessaria per essere davvero in competizione.
Il 62,7% degli aventi diritto che non si reca alle urne è un dato indubbiamente negativo, ma c'è stata troppa superficialità nell'interpretare questo dato senza tenere conto delle circostanze in cui si è sviluppato. In un contesto con un unico vero candidato, viene meno la possibilità di esercitare il “voto utile”, o “voto strategico”, che consiste nel dare il proprio voto non al candidato di maggiore gradimento ma a quello preferito tra quelli con concrete possibilità di vittoria. Per questo è anche chiamato “voto contro”, perché può anche essere interpretato come un calcolo per evitare che vinca il candidato meno gradito. La strategia del “voto utile” è quella seguita dalla maggioranza degli elettori, a maggior ragione dagli elettorati più ideologizzati come quello della regione rossa per antonomasia. Date le premesse, vedo l'alta astensione come il segnale che si, una grossa fetta di elettorato emiliano-romagnolo non nutre molto entusiasmo per il PD e per Bonaccini, e non c'è da meravigliarsi dopo gli scandali “spesepazze”, “terremerse” e il caos delle primarie, ma non ha fatto nulla per fare in modo che la regione cambi amministrazione, perché evidentemente gli sta bene così. È un po' come dire “non farò niente per impedirvi di governare, ma stavolta non vi darò il mio esplicito consenso”.
Tuttavia i mass media si alimentano di catastrofismo e sensazionalismo e si sa, gli italiani vanno matti per i tormentoni come appunto è stata la parola astensionismo in questi giorni, riportata ossessivamente e soprattutto interpretata superficialmente e in maniera spesso strumentale un po' da tutti gli insoddisfatti di questa tornata elettorale. Per carità, molte cose sono vere, a cominciare da questioni “ambientali” come il fatto che si potesse votare un solo giorno e che non c'erano altri tipi di elezioni per cui recarsi alle urne fino ai fattori più strettamente politici. È vero che la politica fatta sul territorio sta perdendo terreno in favore di una politica ad immagine e somiglianza dei ledaer, ma questo processo non è iniziato domenica e soprattutto è naturale in una società sempre più digitalizzata. Non significa tuttavia che questa nuova politica debba essere per forza peggiore della precedente. Sebbene sia innegabile che non basta l'assenza della competizione diretta dei leader di partito per giustificare un così netto calo dei votanti, ma lasciarsi andare ai catastrofismi, soprattutto all'interno del partito che governa 18 regioni su 20, denota forse una certa voglia di strumentalizzare la questione.
Questo ci porta dritti all'"effetto Renzi", fattore a mio avviso sopravvalutato perché letto in chiave assoluta e non alla luce di quello principale, la già citata assenza di reale competizione. Ha ragione l'ala sinistra del PD a dire che l'alta astensione nella regione rossa per eccellenza può essere interpretata come insoddisfazione verso il lavoro del segretario e soprattutto della sua svolta centrista, ma è solo uno dei tanti fattori. Cercare di convincere che sia l'unico è una strumentalizzazione troppo forzata. Ha anche ragione l'ala renziana a dire che la partecipazione diretta del premier porta voti extra rispetto a quelli della base, come dimostrano le europee di sei mesi dove innegabilmente il famoso 40% è stata una sorta di plebiscitaria approvazione al nuovo governo Renzi, ma non si possono nascondere i problemi reali dietro al consenso nella figura del leader. Entrambi i fattori hanno spinto le persone a restare a casa, ma sono comunque secondari rispetto all'assenza di competizione, vero fattore dominante e condizione peculiare di queste elezioni regionali, quindi bisogna muoversi molto cautamente sia nell'estendere il discorso su scala nazionale sia nel dare un giudizio assoluto sull'interesse e sulla fiducia nella politica dei cittadini dell'Emilia-Romagna. L'affluenza alle urne in occasione delle europee è stata del 70% (13% in più della media italiana), pensare che gli emiliano-romagnoli si siano disaffezionati alla politica in sei mesi è francamente assurdo. E è altrettanto esagerato sostenere che un elettorato fedele e radicato come quello del PD metta tutto in discussione dopo qualche mese di gestione discutibile da parte del segretario.Basti pensare alla vittoria alle amministrative 2013, svoltesi in uno dei periodi più bui della storia del partito, quello della non-vittoria di Bersani e dei 101 franchi tiratori, che tuttavia non ha impedito agli elettori di recarsi massicciamente al voto quando il verdetto era tutt'altro che scontato.
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