L'aveva
già detto qualcun'altro, quasi centocinquant'anni prima di Califano:
il conte Giacomo Leopardi.
Lo scriveva in un lettera rivolta allo studioso Giordani nel 1817,
con il quale stabilì una corrispondenza epistolare sfociata poi in
una delle più solide amicizie che hanno segnato la vita del poeta
marchigiano.
Di
Leopardi ci riempiono le orecchie fin dai primi anni di scuola, per
imparare Il sabato del
villaggio a memoria,
nella speranza condivisa che all'interrogazione non ti chiedano i
Paralipomeni della
Batracomiomachia
perché il titolo è impronunciabile.
Al di là degli insegnamenti accademici, il mondo del cinema se n'era poco occupato: oltre il film di Pasinetti del 1941, Sulle orme di Giacomo Leopardi, e del più noto cortometraggio di Olmi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere (1954), il nulla. Ci ha pensato Martone a colmare un vuoto – pressocché inspiegabile – con la realizzazione del film Il giovane favoloso, che vede un emaciato Elio Germano nei panni dell'esimio poeta. Se anche voi vi siete chiesti da dove spuntasse fuori il titolo, non trattandosi di un verso noto dell'autore, eccovi svelato l'arcano: sono parole scritte da Anna Maria Ortese nella sua raccolta Da Moby Dick all'Orsa Bianca per descrivere la sua visita alla tomba di Leopardi. Una scelta anomala se consideriamo che il poeta appare nelle vesti di giovane spensierato solo nella breve sequenza iniziale, che ritornerà come un flashback nel corso del film, e di favoloso ha ben poco.
Al di là degli insegnamenti accademici, il mondo del cinema se n'era poco occupato: oltre il film di Pasinetti del 1941, Sulle orme di Giacomo Leopardi, e del più noto cortometraggio di Olmi, Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggiere (1954), il nulla. Ci ha pensato Martone a colmare un vuoto – pressocché inspiegabile – con la realizzazione del film Il giovane favoloso, che vede un emaciato Elio Germano nei panni dell'esimio poeta. Se anche voi vi siete chiesti da dove spuntasse fuori il titolo, non trattandosi di un verso noto dell'autore, eccovi svelato l'arcano: sono parole scritte da Anna Maria Ortese nella sua raccolta Da Moby Dick all'Orsa Bianca per descrivere la sua visita alla tomba di Leopardi. Una scelta anomala se consideriamo che il poeta appare nelle vesti di giovane spensierato solo nella breve sequenza iniziale, che ritornerà come un flashback nel corso del film, e di favoloso ha ben poco.
Martone
si è affidato alla produzione letteraria per la ricostruzione
biografica, a partire dalla fanciullezza, procedendo a macchia di
leopardo sino al periodo precedente la morte (1836-37). La figura di
Leopardi non viene mitizzata, ma piuttosto raccontata nella sua
malattia, nella malinconia, nei fallimenti e negli amori non
corrisposti. Nessuno sbilanciamento verso tematiche ambigue e non
confermate, come la sua presunta omosessualità, forse solo
leggermente accennata in una breve sequenza nella quale lo sguardo di
Leopardi si sofferma un po' troppo a lungo a contemplare il corpo
nudo di Ranieri. Certamente non dev'essere facile tracciare il
profilo di un artista così anomalo, la cui vita è stata segnata
principalmente da una malattia sulla cui natura ancora si dibatte
(forse malattia di Pott?), e da cicliche e profonde depressioni
(forse disturbo bipolare?). Così Martone delinea una geografia
emotiva, passando per i luoghi principali nei quali il conte ha
vissuto: la prigione Recanati, gli amori di Firenze, l'inospitale
Roma e la bella Napoli, chiudendo sui paesaggi di Torre del Greco.
Mancherebbe Bologna, nella quale egli ha vissuto attorno al 1825,
l'amore non corrisposto per Teresa Carniani Malvezzi, lì conosciuta,
e la pubblicazione delle Operette
morali,
da far risalire sempre a quegli anni.
Martone
dedica quindi una prima parte agli anni che vanno sino al 1821,
necessari per poter identificare il sostrato culturale nel quale
Lepardi si è formato, parlare del rapporto conflittuale con i
genitori: il saggio padre, conte Monaldo, fondamentale per i suoi
studi e la religiosissima madre Adelaide Antici (che prenderà le
sembianze della Grande Madre nel Dialogo
della Natura e di un Islandese);
l'amore fraterno per Carlo e Paolina, in realtà solo due dei nove
fratelli del poeta, i sette anni di “studio matto e
disperatissimo”, la corrispondenza con Giordani, nel quale Monaldo
identifica la causa della crisi di valori del figlio e il tentativo
di fuga. Segnano questo periodo la stesura de La
sera del dì di festa
e L'Infinito,
recitate magistralmente da Elio Germano, rischiando però di
conferire un tono leggermente patetico alla proiezione, forse
retaggio della rappresentazione teatrale portata in scena dallo
stesso regista prima di girare il film. Poi un lungo salto temporale
di dieci anni e si passa subito a Firenze, all'amicizia con Antonio
Ranieri che compare senza essere introdotto, dando la sensazione che
sia comparso dal nulla, e all'amore per Fanny Targioni Tozzetti.
Forse Napoli appare come l'unica parentesi di felicità in una vita
triste, precocemente smorzata dopo la visita al bordello nel quale
Ranieri voleva iniziare un Leopardi ormai adulto ad una vita sessuale
mai consumata, conclusasi tra le risa di monelli ciarloni.
Con
un finale un po' telefonato, il film si chiude con le parole de La
Ginestra,
mentre sullo sfondo vediamo correre immagini del Vesuvio, del fiore e
dell'autore ormai allo stremo delle forze, seduto alla terrazza della
residenza di Torre del Greco. Un vero peccato tralasciare il giorno
della sua scomparsa, durante il quale Leopardi si è ingozzato con un
chilo e mezzo di confetti comprati dalla sorella di Ranieri, e una
cioccolata in tazza, alla faccia delle raccomandazioni del medico di
non mangiare dolci. Una Grande abbuffata
ante litteram.
Il
tentativo vuole forse essere quello di delineare un disincantato
ritratto di un uomo, prima che di un poeta, rimanendo sempre ben
ancorati alla funzione salvifica che la letteratura ha rappresentato
nella sua vita. In fondo qual è la differenza tra un
giovane favoloso oggi e il
giovane favoloso d'allora? Si tratta pur sempre di un ragazzo
cresciuto nell'agio di un paese chiuso e bendato dai dettami della
Chiesa, malato di cultura, desideroso di fuggire lontano e scoprire
luoghi nuovi, per innamorarsi ogni volta di più e dare un senso alla
propria vita.
Così come dopo numerosi anni di studio e molteplici
lauree, tanti di noi oggi scappano verso un futuro migliore oltralpe,
nella speranza di trovare all'estero le opportunità che l'Italia non
è pronta ad offrirci. In questo senso Martone ha colpito nel segno,
così come ha colpito raccontando il Risorgimento italiano in Noi
credevamo (2010),
in un momento storico in cui tutto viene messo in discussione. Ad
accorciare le distanze tra il 2014 e l'800 si pongono le musiche di Apparat e la fotografia di Renato Berta, che rende ogni immagine alla
stregua di un dipinto verista.
Roberta Cristofori
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