Per quanto riguarda la fase più recente della
guerra al terrore, due sono le cose che più abbiamo sentito
ripeterci in questi giorni. Una è il pericolo rappresentato dalla
possibilità di attentati in qualche paese occidentale (causato da
“agenti esterni” o dal ritorno a casa di terroristi europei o
americani, convertiti o seconde generazioni).
La seconda riguarda
la tanto predicata “via diplomatica/politica” per risolvere il
conflitto con l’Isis. Quella strada che si dovrebbe in teoria
affiancare all’azione militare portata avanti dagli USA,
dall’Europa e da alcuni stati arabi in questi giorni. La via
diplomatica è in realtà l’unica attualmente percorribile.
Le guerre di esaurimento del Novecento sono finite; niente più mobilitazioni generali di intere popolazioni fino all’annientamento totale del nemico. L’epoca delle guerriglie invece, nella quale un esercito convenzionale si scontra con formazioni irregolari più o meno organizzate, si sta sempre più affinando. Le grandi potenze se ne sono accorte in Vietnam – per gli USA – e in Afghanistan – per l’URSS e poi di nuovo per l’America. L’Isis perciò non verrà sradicato coi raid aerei. Ovunque nel mondo (Yemen, Pakistan, Somalia, Afghanistan, Iraq…), una simile minaccia viene oggi tenuta a bada da un mix – almeno a parole – ben calibrato di operazioni con droni (ricognizioni e bombardamenti), truppe di terra e opere di ricostruzione sociale, economica e istituzionale. Solitamente sono gli “indigeni” a metterci la fanteria: in Somalia sono gli eserciti etiopi, kenioti, ugandesi e burundesi inquadrati nella missione AMISOM dell’Unione africana, in Afghanistan invece sono i nuovi esercito e polizia nazionali, in Iraq i curdi e le milizie sciite del governo centrale. Gli alleati occidentali, scottati dagli insuccessi degli ultimi anni, intimoriti dall’opinione pubblica e con budget sempre più risicati, invece schierano – come da copione - la componente aerea e di intelligence.
Le guerre di esaurimento del Novecento sono finite; niente più mobilitazioni generali di intere popolazioni fino all’annientamento totale del nemico. L’epoca delle guerriglie invece, nella quale un esercito convenzionale si scontra con formazioni irregolari più o meno organizzate, si sta sempre più affinando. Le grandi potenze se ne sono accorte in Vietnam – per gli USA – e in Afghanistan – per l’URSS e poi di nuovo per l’America. L’Isis perciò non verrà sradicato coi raid aerei. Ovunque nel mondo (Yemen, Pakistan, Somalia, Afghanistan, Iraq…), una simile minaccia viene oggi tenuta a bada da un mix – almeno a parole – ben calibrato di operazioni con droni (ricognizioni e bombardamenti), truppe di terra e opere di ricostruzione sociale, economica e istituzionale. Solitamente sono gli “indigeni” a metterci la fanteria: in Somalia sono gli eserciti etiopi, kenioti, ugandesi e burundesi inquadrati nella missione AMISOM dell’Unione africana, in Afghanistan invece sono i nuovi esercito e polizia nazionali, in Iraq i curdi e le milizie sciite del governo centrale. Gli alleati occidentali, scottati dagli insuccessi degli ultimi anni, intimoriti dall’opinione pubblica e con budget sempre più risicati, invece schierano – come da copione - la componente aerea e di intelligence.
Ma tutto questo apparato, questo dispiegamento di forze, non risolverà il problema. Lo indebolirà per un certo tempo, ne limiterà il raggio d’azione e la capacità espansiva ma non sarà risolutivo sul periodo. E alla popolazione civile cambierà poco che nelle stanze dei bottoni si sia deciso di rimandare la questione se il futuro continuerà ad essere fragile e insicuro. L’instabilità sociale, economica e politica sarà sempre in agguato e un raid aereo americano non risolverà i problemi del cittadino siriano o iracheno, così come non lo faranno i fanatici dell’Isis, totalmente incapaci di farsi carico della gestione dello Stato che dicono di voler rappresentare. La falla verrà tamponata solo momentaneamente ma è bene sapere che potrebbe tornare a riaprirsi da un momento all’altro.
Fonte: globalpost.com |
Mentre scriviamo i raid aerei continuano a
martellare le postazioni dell’Isis ma gli effetti di tali
bombardamenti non sembrano aver dissipato la minaccia che incombe su
Iraq e Siria. Sembra perciò lecito domandarsi se questa sia la
migliore strategia che USA ed alleati potevano mettere in campo. E
inoltre, quali sono le proposte messe in campo per il dopo? È vero,
sulla poltrona più alta di Baghdad non siede più al-Maliki, uno
degli ostacoli più forti ad un governo iracheno più inclusivo, ma
era questo l’unico cambiamento di cui si sentiva il bisogno? Questo
il massimo dello sforzo diplomatico che ci si poteva attendere da
Washington, Teheran e Riyad? L’iniziativa militare è già in mano
ad al-Baghdadi e ai suoi accoliti, gli si vorrebbe dunque lasciare
anche quella politica?
La guerra attuale può (o forse sarebbe meglio dire che potrebbe) creare “solo” una cornice spazio-temporale di relativa stabilità, questo è il massimo che si possa chiedere ai militari. Nella crepa della guerra bisognerà infilarsi rapidamente con un intervento internazionale condiviso da quanti più attori possibili. Infatti, quando il rumore delle armi si farà più debole non bisognerà abbandonare l’Iraq e la Siria a loro stessi. Anzi. Proprio in questo momento l’intera comunità internazionale dovrà essere più presente e attiva che mai. Quando i sovietici abbandonarono l’Afghanistan il paese non conobbe finalmente la pace ma si trasformò in un campo di battaglia perfetto per una tra le più sanguinose guerre civili della storia moderna. Dopodiché emersero i talebani del mullah Omar.
La guerra attuale può (o forse sarebbe meglio dire che potrebbe) creare “solo” una cornice spazio-temporale di relativa stabilità, questo è il massimo che si possa chiedere ai militari. Nella crepa della guerra bisognerà infilarsi rapidamente con un intervento internazionale condiviso da quanti più attori possibili. Infatti, quando il rumore delle armi si farà più debole non bisognerà abbandonare l’Iraq e la Siria a loro stessi. Anzi. Proprio in questo momento l’intera comunità internazionale dovrà essere più presente e attiva che mai. Quando i sovietici abbandonarono l’Afghanistan il paese non conobbe finalmente la pace ma si trasformò in un campo di battaglia perfetto per una tra le più sanguinose guerre civili della storia moderna. Dopodiché emersero i talebani del mullah Omar.
Se l’Isis, attuale nemico di tutti, fosse
sconfitto, chi impedirebbe a Iran e Arabia saudita di ricominciare a
foraggiare i rispettivi alleati dalle parti opposte del fronte? Chi
ostacolerebbe un ritorno alla violenza settaria, alle spartizioni di
potere orchestrate nelle segrete stanze, agli interessi di parte
fatti sotto banco, ai richiami all’odio e agli incitamenti alla
violenza? Insomma, un ritorno ad un passato a noi in realtà molto
prossimo. Non un passo avanti ma due indietro.
Servirà perciò
un intervento molto ampio e innovativo per realizzare un effettivo
cambiamento nelle relazioni fra i paesi della regione. E bisogna che
un simile intervento cominci a delinearsi ora, perché si sappia
ovunque e con precisione che tipo di Medio Oriente si vorrà veder
crescere nei prossimi anni. Dato che l’Isis è come un cancro e si
continuerà a cibare dell’inefficienza dei governi e del malessere
delle popolazioni dell’area.
Perciò, se la strada dell’accordo
avesse successo, si dovrebbe rapidamente replicare in tutte le altre
grandi questioni irrisolte del (più o meno) Vicino Oriente: pensiamo
al conflitto israelo-palestinese, agli scontri tra Pakistan e India
per il Kashmir, alla questione curda e al Libano. Queste sono tutte aree che
presentano alcune caratteristiche comuni: anni e anni di guerre e
sofferenze e il terrorismo come sola alternativa a dei processi
politici fermi da tempo.
Inoltre, a vigilare sul rispetto degli
accordi presi, dovrebbe essere posto un organismo sovranazionale come
l’ONU riconosciuto da e comprendente tutte le parti in causa. Un
contingente di pace dotato di regole d’ingaggio e di un mandato
chiari dovrebbe cominciare a soccorrere la popolazione, disarmare le
milizie illegali e affrontare attivamente eventuali recrudescenze del
terrorismo.
Nel frattempo in Iraq come in Siria dovrebbe
cominciare un serio e quanto mai urgente lavoro diriconciliazione nazionale, di state building (almeno per l’Iraq) e di ricostruzione post bellica: delle istituzioni, delle economie e delle società.
Tutto ciò potrebbe richiedere molto tempo e molte
tragedie ma potrebbe anche rappresentare una strada per non ricadere
in un passato che ci ha condotti esattamente dove ci troviamo oggi.
Marco Colombo
Una strada per ricostruire di Marco Colombo è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
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