SundayUp - Raymond Queneau e gli "Esercizi di stile": la sostanza della forma

Volendo comporre una nuova frase su un libro, un disco, cuffie, acqua e freddo, castagne, spolverini e una maniglia, mi trovo qui costretto ad ingegnarmi per cavarne qualcosa di sensato.

No, non sono uscito di senno improvvisamente. Riscrivo in altra forma (!) le precedenti righe:

Volendo comporre una nuova frase
su un libro, un disco, cuffie, acqua e freddo,
castagne, spolverini e una maniglia,
mi trovo qui costretto ad ingegnarmi
per cavarne qualcosa di sensato.

Improvvisamente una sequenza di parole che nelle prime righe non aveva (almeno non volontariamente) un senso, ci costringe a trovarne uno quando viene sistemata in bell’ordine evidenziando gli endecasillabi che la compongono. Ora, in questo preciso caso non credo che, nemmeno sistemate ordinatamente, queste parole abbiano un senso, ma l’esempio (ripreso, nella sua impostazione, da un articolo del Sole 24 Ore di troppi mesi fa perché mi ricordi la data precisa) spero faccia capire quanto sia importante la forma nella presentazione di un testo.
In tutto ciò una delle più ammirevoli e geniali realizzazioni di questi “giochi di forma” sono gli Esercizi di stile di Raymond Queneau: una raccolta di variazioni stilistiche su un unico (e semplicissimo, quasi banale) testo base.
Parigi. Verosimilmente anni ’50. Un tizio sale su un autobus, assiste a un litigio tra due passeggeri, uno dei quali scende. Qualche ora più tardi il narratore lo rivede in un altro punto della città mentre parla con un conoscente. Fine della storia. Entusiasmante, vero?
Sgomberato qualsiasi dubbio sull’effettivo interesse della storiella originale, possiamo affermare con una discreta certezza che la sostanza degli Esercizi è poco più di nulla, uno scherzetto letterario che definire semplice sarebbe anche troppo. Ciò che conta, in questo caso, è la forma, con buona pace dell’equilibrio con la sostanza di aristotelica memoria.
Nelle 98 variazioni, infatti, Queneau si scatena in una vertiginosa serie di divertentissimi colpi da maestro: si possono leggere divertissement di ogni tipo, da quello con sole parole derivate dal greco (chi l’avrebbe mai detto che la parigina stazione Saint-Lazare sarebbe diventata il “siderodromo agiolazarico”?) a quello esclusivamente costituito da litoti, da quello nebulosamente esitante (“Non so bene dove accadesse… in una chiesa, in una bara, in una cripta?”) a quello ossessivamente preciso (che pedantemente ci informa che l’autobus è “lungo 10 metri, largo 3, alto 3,5” e che si trova “a 3600 metri dal suo capolinea”). Dall’haiku al gastronomico, dal ripetitivo al botanico, e via dicendo, con più variazioni di quelle che potreste mai immaginare.

Merita almeno un paragrafo il lavoro che un qualsiasi traduttore deve affrontare per portare in una qualsiasi lingua l’opera di Queneau. Di fatto non si può nemmeno parlare di traduzione, e sarebbe più pertinente definirla una riscrittura. Questo perché i giochi di parole, i trucchi enigmistici e le capriole linguistiche di Queneau non sono traducibili direttamente, costringendo a impadronirsi man mano di gerghi, modi di scrittura, in una parola di stili sempre diversi. L’edizione italiana è stata riscritta dall’inossidabile Umberto Eco, che ha – come è giusto – aggiunto del suo alla struttura base creata da Queneau. Va notato che, a detta dello stesso autore, gli Esercizi di stile sono un’opera aperta: egli stesso indica un lungo elenco di “esercizi di stile possibili” (sono decine!), senza tuttavia scriverli, come una sorta di invito agli scrittori che si approcciano alla sua opera, un’idea lanciata nell’arena della letteratura. Eco accoglie alcuni suggerimenti, per esempio scrivendo ben cinque diversi lipogrammi (testi in cui manca una particolare lettera), uno per ogni vocale, mentre Queneau si era fermato a uno (in cui manca la lettera e); adatta il gergo campagnolo francese rendendolo con un italiano approssimativo e sgrammaticato con palesi influenze dialettali piemontesi (un paio di “giüda faus”, tra le tante cose); quello che nell’originale è “Italianismes” naturalmente diventa “Francesismi” (“Allora, un jorno verso mesojorno egli mi è arrivato di rencontrare…”); traduce l’esercizio “Alexandrins” (un tipo di verso tipico della letteratura francese, ma di fatto sconosciuto in Italia) con una “Canzone” che fa bonariamente il verso al “Passero solitario” di Leopardi (“Sulla pedana d’autobus antica / pollastro solitario sopra l’Esse / sussulti e vai nel pieno mezzogiorno…”); per tacere degli anagrammi, delle sineddochi, degli omoteleuti, onomatopee, poliptoti, aferesi, sincopi e altri malanni di stagione del genere, che richiedono ben più di una semplice traduzione per essere comprensibili in un’altra lingua.

Naturalmente, appurato che la sostanza è poco più che nulla, resta il 50% di quel che un liceale medio tende a ricordarsi di Aristotele una volta finita la terza: la forma, questa sconosciuta. Passata spesso sotto silenzio, soffocata dalle ripetizioni di schemi fissi (non solo in ambito letterario, basti pensare a tutte le forme musicali) e offuscata dall’ossessione per la sua amica sostanza, che il senso comune vuole veicolo del messaggio vero. Espressioni come “in sostanza” oppure l’abusato (e da me profondamente odiato) “la sostanza delle cose” lo dimostrano.
Ebbene, Queneau ha scritto un libro decisamente “in forma” e in cui ci evidenzia con perizia e leggerezza notevoli quella che è “la forma delle cose”. Un bellissimo modo di avvicinarci a un nuovo modo di intendere l’opera d’arte: come contenitore, non esclusivamente come contenuto.

Alessio Venier

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