Lo scontro nello scontro


Sul campo del superamento del bicameralismo paritario presente nella Costituzione si sta consumando a Palazzo Madama una dura battaglia tra i promotori della proposta (la maggioranza di governo insieme a Forza Italia in virtù del celeberrimo e contestato “Patto del Nazareno”) e chi invece la ripudia (le restanti opposizioni ed in particolare Sinistra Ecologia e Libertà), lamentandone in primo luogo l'assenza di elezione diretta degli eventuali nuovi membri del senato. Ma se la battaglia vera non fosse questa? Se lo scontro non vedesse da una parte i pro-Renzi, pro-governo, pro-riforma del senato, pro-italicum contro tutti i contestatori possibili ed immaginabili, bollati come “difensori dello status quo e nemici del cambiamento”? Se invece questo non costituisse altro che un ultimo, ma solo in ordine di tempo e non in senso assoluto, atto di una ventennale ostilità istituzionale tra governo e parlamento per determinare chi prende le decisioni in Italia?

Il titanico scontro è iniziato probabilmente con la presunta “seconda repubblica”. Precedentemente il problema dei governi italiani di piegare alla propria volontà il parlamento era meno pressante. Il più grande partito di allora, la Democrazia Cristiana, sapeva sempre che, a prescindere dalle sue performances in carica, sarebbe stata il perno del governo successivo. Di conseguenza non si preoccupava di se e quanto le sue proposte fossero approvate dalle camere. In un certo senso esisteva sempre una seconda chance. Se poi una legge o una riforma non veniva mai alla luce e rimaneva solo un buon proposito non era affatto una tragedia, dato che non c’era nessuna avversione per lo “status quo”.


Dopo tangentopoli e l’improvvisa estinzione della DC si è configurato presto una sorta di bipolarismo. Da una parte questo esito è stato il frutto della contingenza e dell’emergere di Silvio Berlusconi sulla scena politica. D’altra parte però è stato anche l’esito di una forzatura (allo stato delle cose oserei dire fallimentare) da parte degli stessi attori politici in nome dei propri interessi ma anche di una certa aspirazione a migliorare la governabilità di questo paese. In altri termini di dare più forza al governo. Ma se qualcuno guadagna forza qualcun’altro la deve perdere. In questo caso il parlamento. Insomma la logica ispiratrice di questa trasformazione, desunta da altre democrazie occidentali in cui l’alternanza tra due partiti o coalizioni è la prassi, si poteva sintetizzare così: chi vince le elezioni ottiene la maggioranza parlamentare per tutta la durata della legislatura e impone le sue decisioni e, successivamente, il suo destino verrà deciso alle urne dal popolo sovrano. Il parlamento in questa concezione diventa così poco più di un inutile orpello.

Tuttavia il piano è andato storto. Le coalizioni si sono rivelate litigiose e precarie e, nonostante l’uso smodato e crescente dei decreti leggi, il parlamento e i suoi membri hanno identificato degli stratagemmi per rivendicare le proprie funzioni. Così è cominciato questo conflitto istituzionale. Un conflitto che ha diviso e continua a dividere osservatori, accademici e la stessa classe politica. Da un lato dello schieramento, quello governativo, decisionista e “autoritario”, fin dall’inizio si trovava l’allora cavaliere Berlusconi, la sua formazione “Forza Italia” e i vari alleati. Proponendosi come alfiere di una imprecisata rivoluzione liberale e modernizzatrice, l’ex imprenditore (ecco anche la mentalità aziendalistica forse ha pesato) lombardo non poteva che privilegiare l’istituzione del governo, in rottura con la tradizione. In fondo la stessa spinta innovatrice oggi spinge Matteo Renzi su questo lato del campo. Dall’altro lato, quello “parlamentarista”, storicamente si è posizionato il successore del PCI, in linea con la tradizione che vedeva nella istituzione più rappresentativa il luogo in cui i comunisti potevano fare valere le loro ragioni. Mano a mano che la sinistra si è spostata al centro diventando partito di governo, si è avvicinata alla posizione filo-governativa lasciando ai piccoli partiti estremi la difesa del parlamento. Questi ultimi appunto l’hanno utilizzata spesso in funzione strumentale dato il loro scarso peso politico. Gli osservatori e i giornalisti si sono diligentemente schierati secondo i loro orientamenti politici. Tra gli specialisti, invece, i costituzionalisti tendenzialmente sono più parlamentaristi mentre i politologi tendenzialmente più pro-governo

Nelle ultime legislature però la temperatura di questa guerra è salita enormemente. La ragione sostanzialmente risiede nella pressione sulla nostra classe politica da parte dell’opinione pubblica interna e della comunità internazionale, in particolare le istituzioni dell’Unione Europea, di agire rapidamente per far uscire l’Italia dalla sua pessima situazione finanziaria. Urgono dunque interventi per ammodernare il paese e per ottenere risorse economiche ed il governo è incaricato di partorirli. In questo clima di frenesia legislativa, il parlamento, invece, dovrebbe semplicemente piegare la testa e ratificare, quando ne ha il tempo e non è sostanzialmente bypassato. Ovviamente questa condizione di minorità non è stata accettata e si sono verificati sussulti di ribellione come le pratiche ostruzionistiche che oggi vediamo messe in atto dalle opposizioni. In un certo senso, presentare tonnellate di emendamenti e/o allungare in maniera spropositata i tempi del dibattito serve quindi fondamentalmente per ribadire la centralità dell’organo parlamentare nel processo legislativo. Un organo parlamentare che nel nostro paese, inoltre, continua a rappresentare un rifugio sicuro per i piccoli partiti in cerca di gloria. Non è un caso infatti che questi ultimi ne siano proprio i più strenui difensori.



Dunque, a cosa siamo di fronte in questi giorni? Ad una “svolta autoritaria” di Renzi che vuole sopprimere il dibattito parlamentare e uccidere la democrazia? Oppure è un’altra dimostrazione di come l’Italia sia ancora affetta da “assemblearismo” ovvero una degenerazione del parlamento, presente nella quarta e poco longeva repubblica francese, che impedisce ai governi di dettare la propria agenda e li tiene sotto il proprio giogo? Oppure, infine, magari tutto rientra nella normalità fisiologica di una dialettica esecutivo-legislativo? Intanto questa guerra istituzionale continua e diventa sempre più politicamente violenta, in attesa di un’eventuale e risolutivo scontro decisivo.

Valerio Vignoli

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