Durante l'intervista che ho realizzato qualche tempo fa con il prof.
Gianfranco Baldini, per analizzare i risultati delle elezioni europee, era
venuto fuori un punto interessante che, per ragioni di parziale incongruenza
con il tema dell'articolo, mi sono concesso la licenza di omettere. Il mio
interlocutore in quella circostanza aveva menzionato, come una delle cause del
prosperare dei partiti populisti in tutti i paesi membri dell'Unione Europea,
le accresciute aspettative dei cittadini nei confronti dei governanti. Per
aspettative intendo, per esempio, essere presi in considerazione anche nelle
decisioni più tecniche e delicate tramite strumenti consultivi come i
referendum, pretendere un alto livello di trasparenza delle istituzioni
governative oppure, semplicemente, arrogarsi l'insindacabile diritto di
giudicare una singola politica positiva o negativa.
Questa inedita autostima postmoderna degli elettorati nelle democrazie
occidentali ha due cause principali. In primo luogo le capacità cognitive del
cittadino medio sono imparagonabili rispetto a quelle di solo cinquant'anni
fa grazie ad un maggiore tasso di
scolarizzazione. Basti pensare che nel 1951 nel nostro paese la quota degli
analfabeti era il 12,9% mentre oggi è praticamente inesistente. In secondo
luogo la diffusione su vasta scala delle tecnologie dell'informazione permette
alle masse popolari di ottenere una quantità e una qualità di notizie senza
precedenti in pochi secondi. Se si digita una parola qualsiasi su un motore di
ricerca come Google è possibile visualizzare milioni di risultati, anche i più
disparati e impensabili.
Una prima riflessione che ne consegue immediatamente è questa: non sono
le personalità politiche ad essere diventate sempre più mediocri ma siamo noi
cittadini ad essere sempre più “intelligenti” e in grado di valutare le scelte
che compiono (o quantomeno pensiamo di esserlo). Detto in parole povere non
siamo amministrati peggio, siamo noi che siamo giustamente più presuntuosi.
Declinando invece l’assunto in termini più cari all’elettorato italiano: le
classi dirigenti non sono più corrotte di quello che erano una volta (locuzione
temporale di un passato indeterminato) ma semplicemente la stampa e,
addirittura i singoli cittadini, posseggono strumenti di controllo più
penetranti ed efficaci. Inoltre appunto ci si attende legittimamente un
determinato comportamento da parte delle figure istituzionali che ci
rappresentano, elette o meno. Insomma nella nostra epoca il rapporto di potere
tra rappresentati e rappresentanti si sta trasformando radicalmente, con i
primi che, teoricamente, possono ricattare con più forza i secondi. Ciò
tuttavia non sempre succede o. talvolta se succede, non ci se ne rende conto.
Ma cosa c'entrano i partiti populisti? Eccome se c'entrano.
Da una parte tutte queste forze politiche, che vanno dal Front National
francese al Tea Party Americano fino ai seguaci di Beppe Grillo, si propongono,
esplicitamente o implicitamente, come conservatrici. Se sono di estrema destra vogliono conservare o,
addirittura restaurare, antichi valori (“famiglia”, “Religione”, “Tradizione”
etc.) minacciati da una società sempre più laica e sempre più multietnica. Se
sono si estrema sinistra invece il baluardo da difendere è principalmente lo
stato sociale di stampo postbellico, palesemente in via d’estinzione. Tuttavia
l’elemento che accomuna queste tendenze all’apparenza antitetiche consiste
nell’appello alle fasce di popolazione più vulnerabili che hanno subito gli
effetti distorsivi della celeberrima “globalizzazione”. In altre parole il
populismo del ventunesimo secolo si percepisce e si propone sostanzialmente
come No-Global.
Ma cos’è la globalizzazione?
Questo termine strapazzato e abusato non ha una definizione
consensuale. Indica generalmente una serie di fenomeni che ha condotto
all'estremo restringimento, per non dire annullamento, delle distanze
spazio-temporali e all'incremento dell'interconnessione tra individui e paesi
differenti. Nonostante questa definizione piuttosto neutra la globalizzazione
in occidente ha contribuito allo sviluppo di dinamiche estremamente
destabilizzanti come la flessibilità
lavorativa, la delocalizzazione e la massiccia immigrazione di persone dai
paesi in via di sviluppo.
Nella ormai collaudata retorica populista gli artefici di questi considerevoli
disagi per i comuni cittadini sono i
politici, o, più in generale, l'establishment, che hanno contributo,
attivamente o passivamente, a questa, a detta loro, nefasta mutazione della
società. Lungi da me affermare l'esatto contrario o che la globalizzazione è
foriera esclusivamente di benefici. D'altra parte però va sottolineato che
questi stessi movimenti sono figli di questo fenomeno travolgente e dello
sviluppo di una rete informatica che fornisce gli strumenti alla comunità
globale per contestare, criticare e protestare in maniera più o meno
costruttiva. Addirittura i nostri Pentastellati usufruiscono del web per (dis)organizzarsi
seguendo (teoricamente) un principio radicalmente egualitario, ovvero il famoso
“uno vale uno”. Il movimento di Occupy Wall Street pure trovava nella rete la
sua piattaforma di riferimento attraverso il quale poi concordare dei Meet-Up
(perché ormai si chiamano così anche in italiano e non più “Riunioni”). I No-Global, quindi, in un certo senso, sono
i più “global” di tutti, seppur inconsciamente. Poiché si inseriscono e
prosperano in un retroterra tecnologico, sociologico e culturale intrinsecamente
globalizzato che ne rende urgenti e attuali le istanze. Sono lo specchio di
questa realtà fluida, dinamica e inafferrabile che ci circonda con tutte le
contraddizioni che si porta appresso. Insomma sono l’uovo che arriva dopo la
gallina. Ma senza la gallina non ci sarebbe l’ uovo.
Un po’ perché pensano appunto di opporsi alla globalizzazione, un po’
perché bene o male devono raccattare voti alle elezioni, un po’ perché è più
facile mettere insieme una part destruens che una part construens, questi movimenti
sono per lo più muti riguardo al tema di come ripensare la democrazia nell’era
della comunicazione digitale, dei social network, degli open source eccetera.
Domande come “la democrazia rappresentativa è
davvero superata?” o “il rischio di una democrazia digitale di sfociare
in una sorta di regime plebiscitario è concreto?” diventano sempre più cogenti
e rimangono aperte. Aperte perché nessuno si azzarda a rispondere. Né la tanto
vituperata “politica politicante” né
tanto meno i populisti. Sempre che gli interessi l’argomento.
Valerio Vignoli
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