“Voi altri vi annoiate perché non avete una vita interiore!” tuonava mio padre
(Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, 1963)
Si faccia una vita interiore, di studio, di affetti che non siano soltanto di “arrivare”, ma di “essere” e vedrà che la vita avrà un significato
(Cesare Pavese in una lettera a Fernanda Pivano, 1944).
Ci sono giorni in cui la solitudine è un vino inebriante che ti ispira libertà, altri in cui è un tonico amaro, e altri ancora in cui è un veleno che ti fa sbattere la testa contro il muro
(Colette, 1937)
Ascoltare gli album da
solista di Andrea Appino dopo aver ballato e cantato tutte le canzoni
degli Zen Circus con un livello di stonataggine e un tono di voce
tanto alto da inimicarsi praticamente tutto il vicinato è un po’
come leggere il diario personale di un qualcuno di cui conoscevamo
solo la facciata pubblica. Il fatto che il cantante pisano abbia
deciso di permetterci di andare oltre la maschera sociale e i toni
accesi delle canzoni da serata in compagnia non può non svelarci, in
una dimensione micro, qualcosa in più su di lui, ma anche, da un
punto di vista più universale, sulla necessità di raccontare se
stessi come individui isolati, di mostrare come siamo quando
rimaniamo da soli. È innegabile l’enormità del bisogno che tutti
noi, come esseri umani, abbiamo di conoscere profondamente noi stessi
e di (se non possiamo amarci) quantomeno di accettarci, perché ogni
cosa è volatile, passeggera, aleatoria, e siamo noi stessi e
soltanto noi stessi le uniche persone con cui passeremo il resto
della nostra vita.
Andrea Appino, che “non
credo negli slogan, li trovo inutili quanto i tweet”, dopo aver
esplorato i legami e i rapporti umani nel suo primo album da solista
Il Testamento (2013),
vira verso mari più oscuri e nebulosi, accompagnandoci con un tuffo
piroettante e deciso nel tema del cambiamento e del viaggio, che è
una metaforica immersione nel Sé e nelle screziature della propria
anima. Il frontman degli Zen Circus si spoglia di (almeno parte del)
nichilismo feroce e mordace che contraddistingue la band pisana e
della critica sociale. La bellissima Ulisse
che apre il disco mettendoti addosso
un’esigenza di partire fisica, un pizzicore allo stesso tempo
fastidioso e stimolante, poiché è solo andandocene da un qualsiasi
luogo che possiamo sentire l’esigenza di tornarvi, tanto più se si
tratta di tornare a casa o (per citare Moni Ovadia) di tornare a se
stessi.
Il tono malinconico di
Rockstar, lontano anni
luce dai riff ossessivi e danzerecci di Nati
per subire o di Canzoni
contro la natura, senza per questo essere
meno coinvolgente, è un alito di vento malinconico che ti sussurra
all’orecchio che il tempo passa e non si ferma per nessuno e che la
vita non ti aspetta e non ti aspetterà se non inizi a viverla.
se avessi studiato
ora magari sarei
professore
di quelli un po' trasandati
affascinante giovanile
le studentesse mi
chiederebbero di uscire
io farei il superiore
ma pio
gli do il numero di
cellulare
L’ironia
caratterizzante è sempre presente, anche se in una forma più
delicata, dolce-amara. Ma probabilmente è proprio in Grande
Raccordo Animale, terza traccia, 3 minuti e
35 secondi di auto-analisi quasi terapeutica che Andrea Appino
presenta il messaggio di fondo dell’album, presentando come una sua
caratteristica la sensazione condivisa da tutti coloro che non
riescono a trovarsi, a non sentirsi apolidi in un mondo di certezze e
apparenze.
Io non so la forma
né la densità
non ho le giuste
proporzioni
non so la quantità
ma sono certo di
volere
si chiama volontà
e se volere è sapere
io so la verità
Io non so la forma
né la densità
non ho le giuste
proporzioni
non so la quantità
ma sono certo di
volere
si chiama volontà
e se volere è sapere
io so la verità
C’è una velata e dolce
tristezza nei testi di Appino, una sensazione spalmabile come una
densa crema alla nocciola, qualcosa di amaro e pungente. Passeggero e
delicato, qualcosa che se ne andrà, che si può trasformare in
creatività e in malinconiche lacrime di comprensione, perché la
tristezza è umana, ed può essere necessaria a farci sentire vivi.
Sono la depressione e la disperazione che mettono radici dentro di
noi e ci cambiano, ci trasformano in persone diverse, rendendoci
fragili e atomizzandoci in un universo nero e straniante.
Sofia Torre
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