L’Italia
non ha cultura musicale.
L’Italia ha una cultura musicale, ma fa
schifo.
In Italia la gente non va ai concerti, e se ci va è per
farsi i selfie da pubblicare su Instagram corredati da hashtag in
numero variabile da 5 a ∞.
Se l’Italia fosse il Regno Unito c’avremmo forse meno pizza, ma
un sacco di gruppi fighi avrebbero il successo che si meritano.
Tutto
questo può essere vero. Ma nonostante la desolante mancanza di un
quadro pubblico e istituzionale per quel che riguarda i musicisti, la
musica e la sua valorizzazione come prodotto culturale in grado di
generare introiti, c’è una cosa che abbiamo in Italia e che non so
quanti altri Paesi del primo mondo possano vantare (davvero non lo
so, non è una figura retorica). Sto parlando dei festival
locali.
Nella
mia limitata esperienza come musicista mi è capitato un sacco di
volte di trovarmi a suonare nelle province più sperdute, nelle
campagne più remote, sui monti più inaccessibili. Tutto grazie a
manipoli di ragazzi e ragazze che ogni anno, sfruttando ogni spazio a
disposizione e ogni minuto libero dai loro “veri” lavori, si
fanno un culo a strisce per organizzare piccoli festival, far suonare
piccole band e portare un po’ di ossigeno nei piccoli paesi che
altrimenti morirebbero di solitudine e senescenza.
In
questo il
Veneto è campione d’Italia.
Tutte le estati le province di Vicenza, Treviso e Padova fioriscono
di feste paesane: ogni frazione ha la sua sagra, che sia quella del
baccalà mantecato, del maiale arrosto o semplicemente del santo
locale, che è poi una scusa più che accettabile per bere come
secchi. Ma dentro a ognuna di queste sagre c’è un commando di
indomiti venti-trentacinquenni che passano l’anno a spulciare i
nuovi nomi del sottobosco indipendente italiano, a contrattare il
prezzo della birra e a cercare un service che costi meno dell’anno
prima, per poi risolvere il tutto in tre giorni di musica dal vivo e
amore. E lo fanno con un cuore che ho sempre ammirato tantissimo, una
passione totale che non guarda al ritorno economico né al numero di
litigi con la ragazza o il ragazzo che si lamentano perché sono
sempre in giro. Per questo, e per il Valpolicella
Ripasso,
Dio benedica il Veneto ora e sempre (anche se i veneti spesso non benedicono Dio - NdEditor)
Ma
anche in Emilia Romagna succedono delle belle cose. Un esempio è il
Rock
Marconi Festival,
una piccola rassegna musicale di uno o due giorni (dipende dagli
anni) che si ripete ogni estate a Sasso Marconi, provincia di
Bologna. Quest’anno si terrà sabato 29 agosto, e come sempre la
location è il parco di Villa Putte, ex villa signorile ora sede
dell’Istituto Tecnico Agrario Arrigo Serpieri.
Nel
parco, oltre all’edificio della scuola, sorge anche una casetta più
piccola che un tempo ospitava il guardiano dei possedimenti della
villa. Da anni ormai questa casetta è sede del centro giovanile di
Sasso Marconi, il Papinsky, all’interno del quale c’è anche una
piccola ma accogliente sala prove.
Il
festival nasce dodici anni fa con il nome di Papinsky
Rock Festival,
un’iniziativa degli educatori del centro per fornire un
palcoscenico alle giovani band che provavano nella saletta. Negli
anni dal PRF è passata la crema dell’underworld
musicale di Sasso e anche di Bologna, gruppi che continuano a suonare
con la carica di allora e gruppi ormai sciolti da tempo, che vivono
solo nei ricordi di chi ci ha suonato e di chi li ha amati.
Tra
i ragazzi che suonavano al Papinsky, però, ce n’era uno un po’
particolare, un po’ matto un po’ visionario. Simon, chitarrista
degli Absolut
Red,
un giorno pensò di prendere il PRF e di tirarlo fuori dalla bambagia
locale nella quale si era perpetuato fino a quel momento, perché era
arrivato il giorno di farlo diventare adulto. Così, assieme ad altri
utenti, educatori ed aficionados
del centro, stravolse il Papinsky Rock Festival, lo aprì ai gruppi
esterni, lo costrinse a confrontarsi con il mondo esterno, cattivo ma
pieno di possibilità entusiasmanti, e gli cambiò nome in Rock
Marconi Festival, svincolandolo così dal rapporto esclusivo con il
centro giovanile. Rapporto che comunque è rimasto, perché da allora
il festival continua a tenersi nello stesso parco, in continuità con
ciò che è stato.
Era
il 2012, l’anno del rito di passaggio, del “Mukanda”
come lo chiamano alcune culture, e che guarda caso è anche il nome
di un altro bellissimo, neonato festival organizzato da dei bravi
ragazzi in quel di Vico del Gargano (FG). Da allora il Rock Marconi
cerca di imporsi come riferimento musicale di un’estate per il
resto morta e sciapa.
Sì,
perché il vero valore sociale di questi eventi sta nel loro
riqualificare un territorio che spesso è spento, privo di vita e
vivacità culturale. I motivi possono essere opposti: si può essere
troppo lontani dalla metropoli, troppo periferici, come è il caso di
molti paesini italiani che ormai si stanno spopolando di giovani e in
cui i vecchi soccombono lentamente al tempo, lasciando le case e le
piazze vuote; ma si può anche essere troppo vicini, ed è proprio
questo il caso di Sasso Marconi. Vicinissimo a Bologna, una delle
città più vitali e piene di fermento musicale d’Italia,
soprattutto in rapporto alle sue dimensioni tutto sommato modeste,
Sasso soffre la sindrome del “buco nero” che è evidente nel caso
della periferia di Milano, una distesa di cittadine-dormitorio
svuotate dal fatto che nulla può sopravvivere a 20 minuti di
macchina da una metropoli con un’offerta così totale e allettante.
Perché passare le serate nell’unico pub del paesino, quando a 20
chilometri di distanza puoi trovare discoteche, concerti di artisti
di calibro mondiale e feste di ogni tipo, forma, tema e dimensione?
Per
questo i festival come il Rock Marconi svolgono un ruolo importante
nel trattenere la socialità nei luoghi dove nasce, come le radici
degli alberi che, avviluppando la terra, le impediscono di essere
sciacquata via dalle piogge e dalle maree.
In
più bisogna aggiungere il livello di qualità che questi festival
riescono a raggiungere, pur con delle risorse spesso ridicole.
Puntando sui gruppi emergenti, sulle next
big thing,
su ciò che si muove ma ancora non è esploso nella scena
indipendente nazionale, spesso riescono a portare grandi spettacoli a
poco o niente in posti che non ne verrebbero mai toccati. Anche
quest’anno, ad esempio, il RMF vanta una line-up che mescola
promesse locali e razzi sul punto di decollare. Il
29 agosto il festival inizierà con due showcase acustici firmati
River’s End
e No Sense Mistake,
che apriranno le danze alle ore 17. A seguire Luck,
Now, band nata dalle
ceneri dei What, Really?, uno dei gruppi seminali della scena
bolognese anni 2000; Smash,
giovani promesse modenesi del grunge in forza alla casa La Barberia
Records; Mood,
duo strumentale math rock rivelazione dell’anno; Any
Other, capitanati
dalla giovane Adele, già front-woman delle recentemente sciolte
Lovecats; Setti,
anche lui modenese di scuderia La Barberia Records, tra i più
apprezzati delle nuove leve del cantautorato; e Go!zilla,
power-fuzz trio fiorentino con un curriculum infiorettato di date
fuori dal Bel Paese.
Oltre
a questo, per fornire un ambiente adatto ad un’adeguata fruizione
del live, ci saranno gli stand gastronomici e quelli del birrificio
artigianale Pratorosso,
alcune bancarelle di artigianato handmade e l’angolo informativo a
cura di SestoSenso,
che fornirà alcol test gratuiti, una chillout zone per rilassarsi e
organizzerà il percorso
sensoriale, un viaggio
alla riscoperta delle potenzialità dei nostri sensi che ormai è il
trade-mark del festival fin dalla sua prima edizione.
Per
mantenere vivi i luoghi dove dormiamo, perché non siano solo dei
dormitori; per sostenere la musica indipendente in Italia, che ne ha
un sacco bisogno; e perché no, anche per vedersi un bel concerto e
farsi un paio di birrette al fresco di un parco, continuiamo ad
andare ai piccoli festival come il Rock Marconi.
Giovanni Ruggeri
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