Corre
l’anno 2012. Mentre cerco timidamente di approcciare il mondo
dell’hip hop, il mio coinquilino del tempo mi consiglia di
ascoltare un disco. L’album si chiama Di
vizi di forma virtù;
l’eclettico rapper/songwriter che lo canta è Dargen
D’Amico, alias JD,
alias Corvo D’Argento; e io m’innamoro subito di pezzi come “SMS
alla Madonna” ed “Ex contadino”.
Pur
viaggiatore profano nel sacro territorio che è il rap, riconosco che
lo stile di Dargen è qualcosa di unico. Le parole gli escono di
bocca in un flusso ritmato eppure omogeneo, incastrate le une alle
altre in giochi di prestigio e calembour
che a volte ricordano più Giuseppe Peveri ovvero Dente
che Marracash. Il flow che lo contraddistingue fin da piccolo (appena
esordiente, a 14 ani, vince un contest di freestyle nel programma
radio One Two One Two)
e l’abilità come mc (è considerato uno dei rapper più veloci e
tecnici della scena italiana) lo rendono un esponente di tutto
rispetto della scena hip hop nazionale, nonostante la sua originalità
lo abbia sempre mantenuto ai margini del grande mainstream dove
imperversano colleghi come i Club Dogo, con i quali inizia tra
l’altro la sua carriera all’interno della crew milanese Sacre
Scuole.
Ma
l’aspetto della sua poetica che più mi piace è il fatto che, pur
rientrando a pieno titolo nella scena rap, le sue canzoni sono quasi
tutte lontane anni luce dalla retorica ghetto/vita da strada/don’t
fuck with me/droga e figa che caratterizza troppa parte della musica
di genere. Al contrario, la sua cifra stilistica è costituita da
temi essenzialmente
intimisti, a metà tra
il self-questioning,
l’autocritica, il flusso di coscienza e certi voli pindarici che
vano ad abbracciare l’uomo nella sua interezza, il cosmo intero,
Dio. Lui stesso definisce il suo stile “cantautorap”,
a metà tra l’hip hop, il cantautorato, l’elettronica e il
progressive; tra le sue principali influenze cita spesso Lucio Dalla
ed Enzo Jannacci, decisamente fuori dall’orizzonte canonico del
rapper medio.
L’esordio
come mc risale al 1999, con le già citate Sacre Scuole. Negli anni
seguenti fonda un’etichetta, la Giada
Mesi, per la quale fa
uscire gran parte dei suoi lavori. Nel tempo lancia sul mercato
cinque album, mentre la cura per gli arrangiamenti elettronici e le
caratteristiche liriche dei suoi testi diventano sempre più tratti
distintivi della sua personalità artistica. Conta una quantità
impressionante di collaborazioni
bizzarramente assortite,
tra le quali ricordiamo Two Fingerz, Club Dogo, Crookers, Fabri
Fibra, Alborosie, Bugo, Marracash, Max Pezzali (sì, QUEL Max
Pezzali), Fedez, Malika Ayane, J-Ax, i Perturbazione ed Enrico
Ruggeri (sì, QUELL’Enrico Ruggeri).
Il
suo eclettismo si manifesta anche attraverso l’originalità della
sua produzione, inaudita in un contesto hip hop che in Italia si è
appiattito sul rap da strada da una parte e sul trash da classifica
dall’altra. Il suo quarto disco, Nostalgia
istantanea, è
composto da sole due tracce lunghe rispettivamente 18 minuti (il lato
A, che reca incisa la title track) e 20 minuti (il lato B, Variazioni
sul tema Nostalgia Istantanea).
I due brani sono in realtà un flusso ininterrotto di parole ed
immagini scaturite dalla riccioluta testa del nostro nei momenti
appena precedenti e seguenti il sonno. Il risultato è un flusso di
coscienza su basi elettroniche quasi ambient, un ininterrotto tuffo
speleologico nel mondo privato di D’Amico. Decisamente non Drop
it like it’s hot.
Date
queste premesse si può capire come, pur non essendo un grande fan
dell’hip hop, fossi molto emozionato mentre il mondo si preparava a
ricevere l’ultimo capolavoro di JD, D’IO,
uscito via Universal il 3 febbraio 2015.
Il
disco consta di 13 tracce nel più puro stile D’Amico, ma con una
marcia in più. Questa volta c’è un soffio
mistico, quasi
profetico, che gonfia tutto il disco. Già la prima traccia, La
mia generazione, è un
canto di amore e disperazione per un popolo anagrafico perso e senza
riferimenti, con “amori e lavori che durano weekend e weekend che
durano una vita”. Anche Amo
Milano è una canzone
d’amore, amore per un posto che “sembra una città ma è Milano”,
metropoli europea piena di difetti e forse proprio per questo così
affascinante.
Poi
arriva La lobby dei
semafori. È un pezzo
strampalato in cui Dargen tira fuori un po’ di quella lingua
sciolta per cui è famoso, asservendola a un testo paracomplottista
che ipotizza una lobby al comando delle luci semaforiche del mondo. E
poi, proprio alla fine della canzone, ci sono quei 50 secondi di
delirio parlato che finisce per paragonare lo stesso Dargen a un
semaforo lampeggiante, un ribelle contro la scena musicale italiana.
A metà tra boh
e wow.
È
il momento di Crassi,
un j’accuse
contro la politica corrotta che spicca come una mosca bianca nella
produzione del rapper milanese, sempre lontano da argomenti di
attualità. Ci si chiede cosa passa per la testa dei figli di Craxi
quando chiedono una strada con il nome del padre: “anche mio
padre”, canta JD, “era un poco di buono, un fantasista di dubbia
moralità; ma non mi verrebbe mai in mente il bisogno di fargli
intitolare la via di una città”. E qui sorge il dubbio che il
nostro in realtà abbia qualcosa
di irrisolto con il padre
(chi non ce l’ha, in fondo), perché anche nel pezzo successivo,
Amico immaginario,
se la prende con il genitore: “avevo già sentito uomini inutili
come mio padre parlare di Dio”.
La
mia donna è un
capolavoro di incastro ritmico: se si ascolta con attenzione il
sintetizzatore che fa da sottofondo all’inizio e per buona parte
del pezzo, e poi si tenta di piazzarci sopra il flow di Dargen,
sembra impossibile che le due cose stiano bene insieme. Poi però,
ascoltando il brano nel suo complesso, tutto gira armoniosamente,
come quelle ruote dentate di dimensioni e forme diverse che, grazie
ai miracoli delle fasi e della geometria, girano incastrandosi
perfettamente l’una nell’altra. Tra l’altro JD coglie anche
l’occasione per reiterare il suo amore
per Dalla, cantando
“poi le mostro sottovoce che qui sotto, sotto sotto io non sono
ancora morto, lei mi dice poveretto
il tuo morto dallo al gabinetto”.
Dalla
traccia 8 alla 13 l’afflato mistico di Dargen si sfoga liberamente.
A parte Lunedì chiuso,
il sestetto di brani è la parte del disco in cui il rapper milanese
può sciogliere i lacci
al suo occhio interiore
e lasciarlo correre lungo tutta la linea del tempo dell’evoluzione
umana (Parenti,
nella quale cerca di spiegare “che siamo tutti parenti/se il primo
uomo è stato uno/ siamo parenti, siamo fratelli di ognuno”),
oppure negli spazi siderali a considerare tutto l’universo,
rispetto a cui, nonostante le nostre manie di grandezza, non siamo
che ridicoli atomi (L’universo
non muore mai). Ma i
brani più sorprendenti sono probabilmente i due di chiusura,
Modigliani
(uno dei singoli estratti dal disco) ed Essere
non è da me.
Il
primo, con la sua base struggente e una melodia vocale che ti culla
fino al sonno tra le lacrime, è una vera poesia ispirata alla vita
di Amedeo Modigliani,
qui simbolo dell’artista consumato dalla sua vocazione e morto in
povertà, solo per essere poi rivalutato e infine osannato a
posteriori, ancora in tempo per tutti tranne che per lui.
Ma
Essere non è da me è
la vera chicca, un riassunto di tutto ciò che è stato ed è Dargen
D’Amico. Come lui stesso dice: “È
un brano figlio di D'iO, è un dialogo (o monologo, a seconda delle
credenze religiose) con la luna - intesa sì come satellite ma
altrettanto come l'Una e cioè sinonimo dell'Uno, e quindi
dell'Universale, di Dio, la Summa”. Corredato di un video
disarmante nella sua semplicità, nel suo farci sentire come se
fossimo davvero di fianco a Dargen nei suoi mille giri per il mondo e
al tempo stesso soli con lui nella sua testa, mentre ripensa a quello
che è stato e tira le somme, Essere
non è da me
è forse l’apice
della produzione artistica
di questo artista alieno, bizzarro, caleidoscopico.
Alcuni penseranno che Dargen abbia sviluppato un complesso di Dio piuttosto importante; basti pensare alle volte che la divinità viene evocata o addirittura confusa con la voce narrante nei suoi pezzi, al titolo del suo ultimo disco, o anche solo all’incipit della citazione precedente. La cosa è verosimile, non lo nego.
Sta
di fatto, però, che quest’uomo spicca come un diamante nel fango
all’interno del panorama hip hop italiano – ma anche in quello
musicale tout
court
– per originalità, intraprendenza, indipendenza, talento e
capacità di scrittura. Ha fondato un’etichetta, ha inventato
almeno un genere musicale, ha sfornato sei dischi di qualità
sorprendente – e tutto questo flirtando sapientemente con le major,
giostrando con abilità tra il pop commerciale e l’avanguardia più
sperimentale, mettendo insieme riferimenti colti, classici della
musica italiana e parti di pura elettronica. Se dovete ascoltare
dell’hip hop italiano oggi, ascoltate Dargen. Se dovete ascoltare
della musica italiana oggi, ascoltate Dargen. Se proprio vi fanno
schifo entrambi, se vi piacciono i Motörhead
o Shakira, se non ascoltate musica per niente – ascoltate comunque
Dargen, e non ve ne pentirete.
Giovanni
Ruggeri
Nessun commento:
Posta un commento